Per favore, Angelina Mango, rinuncia all'Eurovision Song Contest

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Cara Angelina Mango

per prima cosa, complimenti: hai vinto il festival della canzone italiana, al termine di una delle edizioni più seguite e più combattute. Con la tua vittoria hai probabilmente scritto una pagina della storia della musica italiana, e tante altre frasi fatte che potrei scriverti, prima di passare al dunque. Perché alla fine, se ti scrivo, è soltanto perché devo chiederti un favore. Molto grande.

Cara Angelina Mango, 

in quanto vincitrice del festival, hai il diritto di partecipare all'Eurovision Song Contest. Immagino che si tratti di un'occasione non piccola per far conoscere il tuo brano e la tua bravura anche all'estero. Ecco il motivo per cui ti scrivo. 

Devo chiederti di non partecipare: di boicottare l'Eurovision Song Contest. 

Sì, lo so, non sono cose da chiedere a un'artista.  

Ma non so a chi altro rivolgermi, sono abbastanza disperato. Proprio in questi giorni in cui tu hai avuto altre cose cui pensare, il governo israeliano ha chiesto ai civili palestinesi di evacuare Rafah, perché deve smantellare le basi di Hamas che a quanto pare adesso si troverebbero lì – è tre mesi che le cerca, devastando la Striscia nel processo. In queste ore l'esercito israeliano sta già bombardando Rafah. I civili dovrebbero andarsene, ma c'è un problema: Rafah è l'ultima città della Striscia. La gente che tre mesi fa ha accolto un simile invito ad andarsene da Gaza, è scappata più a sud, a Khan Younis – salvo che gli israeliani hanno bombardato e occupato anche Khan Younis, invitando la popolazione ad andare ancora più a sud, appunto a Rafah. Più a sud di così non possono andare, c'è solo il confine egiziano, che rimane chiuso. Ci sono centinaia di migliaia di civili in trappola, a Rafah. Negli ultimi tre mesi ne sono morti più di 25.000, uccisi dalle bombe e dai fucili dell'esercito israeliano. Più di un terzo erano minori. Sono numeri che il governo israeliano non contesta. È chiaro che tu non hai nessuna responsabilità di tutto questo.

Però all'Eurovision gareggerai contro gli artisti di altri Paesi, tra cui Israele, che ha già ufficialmente presentato la cantante che difenderà i suoi colori. Ora, parliamoci chiaro: l'Eurovision è una baracconata al quadrato, che moltiplica due cose che sono già baracconate in sé: le competizioni tra canzoni e le competizioni per nazioni. Tu ci vai a promuovere la tua canzone, non a difendere l'Italia; e allo stesso modo la tua collega non andrà a difendere Israele, né a rappresentare le decisioni del governo o i bombardamenti dell'esercito. E però ci andrà. Come se non stesse succedendo niente. 

Questa cosa, perdonami, la trovo insopportabile. Non è vero che non sta succedendo niente. Due anni fa, come sai, la Russia è stata esclusa dall'Eurovision in seguito all'invasione dell'Ucraina. I rappresentanti di diverse nazioni (non l'Italia) avevano annunciato che se la Russia restava in gara, loro non avrebbero partecipato. A tutti gli osservatori non filorussi sembrò una decisione ragionevole, un modo per dare un segnale al governo e alla popolazione russa: non possiamo tollerare un'invasione a poche centinaia di km da casa nostra, non possiamo giocare assieme a votare il cantante mentre c'è chi bombarda e uccide. Ecco. Due anni dopo il messaggio che rischia di passare è l'opposto: che il governo israeliano può fare quello che vuole senza che nessuno, almeno in Europa, si opponga. E cosa vuole fare il governo israeliano?

Youtube

C'è una sentenza provvisoria della Corte di Giustizia Internazionale dell'Aja che lo mette nero su bianco: Israele deve prevenire qualunque atto che possa essere ricondotto a genocidio. Il che significa quanto meno che il rischio di genocidio c'è. Dopo averla recintata e isolata dal mondo per decenni, l'esercito israeliano sta distruggendo la Striscia. I soldati stanno uccidendo migliaia di palestinesi, cercando di forzarne l'esodo in Egitto. Ufficialmente lo fanno per eliminare i guerriglieri di Hamas e ritrovare gli ostaggi, ma non sembra che stia funzionando. Inoltre compiono azioni che non sembrano avere molto a che fare con l'antiguerriglia. Ad esempio, distruggono gli archivi. e smantellano i cimiteri. Per quale motivo al mondo un esercito in guerra può perdere tempo a eliminare tombe e documenti? Mi viene in mente un solo motivo: cancellare la storia degli abitanti di Gaza, impedire che in futuro qualcuno possa dimostrare l'entità di quello che è successo. Ma come (potresti obiettare), sappiamo bene cosa sta succedendo: ci sono i giornalisti sul posto. Ormai non più, dall'inizio della crisi ne sono morti più di cento, sotto i bombardamenti o colpiti da armi da fuoco. È un numero assolutamente eccezionale, per un teatro di guerra così circoscritto. Sembra proprio che i giornalisti siano presi di mira dai militari israeliani. 

È come se in gioco non ci fosse soltanto la vita di centinaia di migliaia di persone (il che già basterebbe) ma la nostra oggettività. Israele è un Paese nostro amico, e quindi può riscrivere la sua storia a piacimento, e noi dobbiamo far fingere che sia tutto ok, che un tentativo di genocidio sia semplicemente un'operazione antiterroristica. Dobbiamo continuare a raccontarci questa cosa finché non cominceremo a crederci. Scrivere nei nostri libri che i palestinesi erano una sparuta minoranza che a un certo punto si è dileguata per cause naturali, e poi farli leggere ai nostri figli finché non si convinceranno che sia andata così. Questa normalizzazione comincia oggi, quando un tuo collega dice "stop genocidio" e la Rai taglia la frase dal video dell'esibizione; quando si parla dell'Eurovision e diamo tutti per scontato che ci saremo noi e ci sarà anche Israele.

Cara Angelina Mango, il giorno del tuo trionfo a Sanremo ha coinciso con il giorno del ricordo dei massacri delle foibe, forse hai sentito a un certo punto Amadeus che ne parlava. Si tratta di un episodio storico molto controverso; ti basti pensare che su wikipedia le stime dei morti infoibati oscillano tra le tre e le undici migliaia. Anche volendo prendere il numero più alto, si tratta di un massacro inferiore a quello che è avvenuto a Gaza negli ultimi mesi. Da cui la solita domanda: a cosa serve ricordare un episodio di 80 anni fa, se non a impedire che cose simili succedano? E se lasciamo che cose simili succedano senza opporre nemmeno la nostra coscienza, a che ci serve ricordare episodi di 80 anni fa?

Cara Angelina Mango,

probabilmente sto sbagliando tutto. Il conteggio dei morti non è mai un argomento efficace. La fantasia umana ha dei limiti oltre ai quali non riesce più a concepire l'orrore: tremila, trentamila, non fa nessuna differenza. Per questo motivo i comunicatori più abili di solito si concentrano sui casi singoli. Forse avrei dovuto parlarti semplicemente di Hind Rajab, la bambina di sei anni che è sopravvissuta per qualche ora al bombardamento che aveva ucciso la sua famiglia. Stavano scappando da Gaza in automobile, quando è stata presa di mira. La cugina quindicenne è riuscita a chiamato la Mezzaluna Rossa prima di morire. La Mezzaluna Rossa ha richiamato e solo Hind poteva rispondere, così ha risposto. Ha implorato che la venissero a prendere, era lì nascosta tra i cadaveri dei parenti e aveva paura del buio. Il personale della Mezzaluna Rossa ha contattato l'esercito israeliano, ha chiesto di poter accedere all'area. Ha aspettato per ore. Finalmente un'ambulanza è potuta partire, ma non è mai arrivata. L'esercito ha sparato anche all'ambulanza. Non è così raro laggiù. I volontari che partivano, sapevano che il rischio c'era. Ma c'era una bambina sola al buio, e così sono andati. Tutto questo non è normale, non dovrebbe succedere. Se abbiamo la minima possibilità di impedirlo, dobbiamo utilizzare quella minima possibilità. 

Così la mia minima possibilità, stasera, è domandarti questa cosa: per favore, prendi almeno in considerazione l'idea di non partecipare all'Eurovision. Che poi diciamocelo, hai già vinto Sanremo, cosa dovresti dimostrare all'Eurovision? Tutti gli anni una canzone vince l'Eurovision: di solito è un ritornello scemo e ce ne dimentichiamo la settimana dopo. Ma se tu riuscissi a dire, nei prossimi giorni: preferirei non andare, mi sento a disagio a partecipare; vorrei che prima di partecipare Israele si attenesse alla sentenza della Corte Internazionale di Giustizia e prevenisse un genocidio, ecco, credo che milioni di persone in Italia, e in Palestina, e in tutto il mondo (persino in Israele) non ti dimenticheranno più. Scriverai un'altra pagina di storia, persino più nitida di quella che hai scritto ieri.  

E poi certo, qualcuno se la prenderà. C'è gente che non sopporta nemmeno di sentire le parole "stop genocidio": le considera offensive, forse non sa cosa significa genocidio, oppure pensa che è una buona cosa, non lo so. Esiste gente così, e se tu dici che non vuoi andare all'Eurovision, si offenderà molto. Ma è gente che non ti avrebbe ascoltato comunque. E siccome non si può piacere a tutti, probabilmente la cosa migliore è scegliere di non piacere a chi difende i genocidi. Scusami, sono stato troppo lungo. Grazie. E ancora complimenti.

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Le cavallette! (Non è stata colpa mia?)

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19 ottobre: Gioele, profeta (IX secolo o IV secolo aC)

Sesso con gli ortotteri!
Israele, la Palestina, come volete chiamarla, è una terra difficile. Che un Dio possa averla promessa a un popolo in cambio della sua fedeltà, è cosa che desta più di un sospetto. Ti promette fiumi di latte e miele, ti ritrovi con pietraie e laghi salati. Dev'esserci un errore, e non puoi che averlo commesso tu; forse non hai amato Dio abbastanza, dovresti impegnarti di più. Far fiorire il deserto – certo serve molta acqua, occorrerà occupare determinate oasi, scacciare determinati beduini, ma è Dio che ce lo chiede, implicitamente. Tra un pascolo e l'altro capita di imbattersi in rovine ciclopiche, i resti di antiche città che sembrano devastate da diluvi o da tempeste di fuoco – la ceramica si è fusa con le pietre – quel giorno Dio doveva essere molto arrabbiato e siccome ce n'è Uno solo, è lo stesso Dio che ti ha voluto esattamente qui. Meteore, inondazioni, guerre, e poi che altro? Beh, le locuste. Quegli insetti devastanti che Dio inflisse al Faraone per convincerlo a liberare il tuo popolo, ecco, a un certo punto lo stesso Dio le ha inviate a te. È quel che racconta il profeta Gioele nel suo breve libro, di datazione molto incerta: potrebbe essere stato scritto nell'800 come nel 300, un range di cinquecento anni nei quali la situazione più di tanto non cambia: accadono disgrazie, gli uomini domandano a Dio perché, Dio risponde che è colpa loro, ma che se si comporteranno meglio Lui li perdonerà. Questo però mediamente non accade e in breve arriva qualche nuova disgrazia. 

L'avanzo lasciato dal bruco l'ha mangiato il grillo;
l'avanzo lasciato dal grillo l'ha mangiato la cavalletta;
l'avanzo lasciato dalla cavalletta, l'ha mangiato la locusta.

In seguito i lettori poco famigliari con gli insetti migratori si sono ingegnati a considerare le locuste come una metafora, o anche solo l'allegoria di un esercito invasore; e però non è affatto improbabile che il profeta stesse documentando un fatto storico reale, una migrazione di cavallette della specie Schistocerca gregaria, dette volgarmente locuste del deserto, che da millenni infestano Nordafrica e Medio Oriente, creando gravi e periodici problemi a chi coltiva quelle terre così benedette da Dio. Addirittura Gioele potrebbe aver cercato di descrivere i quattro stadi della locusta: il "bruco" sarebbe la larva, il "grillo" la neanide, la "cavalletta" la ninfa e la "locusta" l'insetto adulto, in quella fase gregaria in cui abbiamo scoperto che la compagnia dei suoi simili gli dà una botta pazzesca di serotonina. Proprio così, aggregarsi per le locuste a un certo punto diventa una cosa piacevolissima, meglio del sesso. Non poteva inventarsi qualcosa del genere il Dio che ci ha creati? eh, ma ci ha creati a Sua immagine e così quando cominciamo a essere troppi in una terra che non ha abbastanza acqua, invece di provare piacere, ci ammazziamo. Forse è quello che Dio pretende da noi. Forse invece Dio si arrabbia in questi casi. Non è affatto chiaro. Molta gente al nostro posto impazzirebbe, noi no, non possiamo. Dio ci ha scelti per tutto questo, ci sta mettendo alla prova.

L'invasione delle locuste nel primo capitolo del libro di Gioele è davvero ben descritta, con toni più disperati che apocalittici; non è la solita minaccia di un profeta a un popolo che ha abbandonato il Signore. Tutto è già successo; il Signore è evocato soltanto in un secondo momento, quando Gioele sente la necessità di fornire ai suoi lettori una speranza. Se ci riaccostiamo a Lui, ci darà tutto (quello che ci ha tolto). Farà trionfare Israele su tutti i suoi nemici. Addirittura stenderà il suo Spirito su tutti noi, diventeremo tutti profeti (a causa di questa promessa inusuale, Gioele è considerato il profeta della Pentecoste). Può darsi che il libro di Gioele, per quanto piccolo, sia una collazione di testi diversi; una più antica lamentazione su un fatto storico (un'invasione di locuste) viene in seguito rimaneggiata da un profeta con una teleologia fin troppo chiara: ogni disgrazia è una prova che Dio ci manda affinché recuperiamo la fiducia in Lui. Il Quale un giorno verrà e risolverà ogni problema – nel frattempo ci manda le locuste.
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Dua Lipa contro il sionismo, chi vincerà?

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twitter.com/matthewduchesne
Sabato scorso una pagina del NY Times chiedeva a Bella e Gigi Hadid e Dua Lipa di "condannare Hamas immediatamente". Si trattava di un'inserzione pagata da un gruppo di pressione sionista statunitense che ha l'obiettivo di "diffondere i valori ebraici nel mondo", immaginiamo la contentezza degli ebrei del mondo. 

Bella e Gigi Hadid sono due modelle di origine palestinese, lo so pure io perché vivo in un distretto di maglierie; Dua Lipa non è palestinese né (mi pare) modella, ma ha anche lei espresso rilievi critici nei confronti della politica israeliana in questi giorni, il che anche stavolta significherebbe essere emissari di Hamas; e in effetti non  ha ancora condannato Hamas, quindi insomma Israele è in serio pericolo. L'inserzione contiene la solita citazione antisemita presa dallo statuto di Hamas, il giorno del giudizio non verrà finché i musulmani non avranno ucciso gli ebrei eccetera. Chi ha anche solo due o tre contatti sionisti sui social queste cose ormai le sa a memoria; per tutti gli altri imbattersi in argomentazioni del genere è sempre uno choc culturale. L'inserzione è uno choc culturale. Ogni militanza ideologica richiede un minimo di fantasia, ma il momento in cui qualcuno cerca di venderti Dua Lipa come voce di Hamas è sempre il momento in cui ti guardi attorno per vedere se qualcuno ha montato una candid camera. Perché i sionisti fanno sempre queste figure? È antisemita chiederselo? Probabilmente è antisemita anche solo chiedersi di chiederselo, ma ops, ormai mi è scappata, tanto vale andare avanti.

Ci siamo passati tutti, anch'io durante almeno un paio di crisi israelopalestinesi sono stato inserito in un qualche organigramma di Hamas, errori di gioventù. Probabilmente non tutti i sionisti ragionano così, sono sicuro che ce n'è di intelligenti in giro, ma essendo intelligenti non perdono tempo a discutere con me (e nemmeno con Dua Lipa). Gli ottusi, al contrario... Su internet l'argomentazione idiota scaccia quella intelligente, più volte ho fatto notare che i sionisti sembrano farsi la parodia da soli ma è probabilmente vero per chiunque. Però, ecco, per loro un po' di più. In questo universo di bolle autoreferenziali la loro mi sembra quella che vortica più lontano di tutte, ormai irraggiungibile da qualsiasi disperato tentativo di ripristinare un minimo di oggettività, di buon senso. Esagero, in realtà c'è di peggio: novax, schiachimisti, però ecco, il sionismo non dovrebbe gareggiare in una categoria del genere. Un tizio che accosta il Gran Muftì a Hitler può essere un propagandista che tira l'acqua al suo mulino e fino a un certo punto è un gioco legittimo: il Gran Muftì collaborò coi tedeschi, lo sappiamo. Un tizio che si mette a dire che il Gran Muftì ispirò a Hitler la soluzione finale è uno che negli ingranaggi del suo mulino ci è rimasto incastrato e sarebbe uno spettacolo buffo, spesso lo è, ma è anche una tragedia culturale e sociale. A un certo punto Netanyahu questa cosa la proclama al mondo, e il problema non è che gli israeliani continuino a votarlo (gli italiani hanno continuato a votare Berlusconi anche dopo la storia della nipote di Mubarak); il problema è che potrebbe crederci pure lui ormai, a furia di sentirselo dire. La propaganda però dovrebbe servire per convincere gli altri, non te stesso. O no? E se non convince nessuno tranne te stesso, non abbiamo un problema?

Dal ritiro di Gaza in poi i sionisti hanno avuto ormai vent'anni per impostare il dibattito secondo la narrativa che preferivano. Sono organizzati, sono determinati, i fondi non mancano, tanti ex nemici ormai sono alleati; in certi teatri periferici, come l'Italia, non c'è più un partito in parlamento che osi manifestare solidarietà ai palestinesi. E malgrado tutto, appena ripartono i bombardamenti, il conto delle vittime crea il solito imbarazzo. È la natura asimmetrica del conflitto, non c'è niente da fare: gli oppositori a Israele fungano spontanei sui social, nessun Soros li paga. È gente qualsiasi, di qualsiasi estrazione ideologica o religiosa, che si domanda com'è possibile che in un angolo del mondo succeda questa cosa assurda. I sionisti prontamente rispondono: guardate che Israele è costretta, è minacciata nella sua stessa esistenza. Ma l'aritmetica dei morti e dei feriti ogni volta dice una cosa diversa e intollerabile, bisognerà una volta buona dichiarare antisemita l'algebra (il nome in effetti suona un po' sospetto). 

Finisce che il sionismo diventa uno spettacolo a sé, e non se lo merita. Ogni volta che tirano fuori dal repertorio il solito trucco benaltrista, ogni volta che ti chiedono: ma perché ti interessi dei palestinesi invece che dei siriani / armeni / nordirlandesi / saharawi? sono tentato di rispondere: guarda che io mica mi interesso ai palestinesi, poveracci: sei tu quello interessante. Sei tu che ogni volta mi lasci con la mascella a terra, quando dopo dieci razzi paventi la distruzione di Israele e il complotto mondiale di George Soros, Dua Lipa e Roger Waters. Sei tu che una volta eri progressista e adesso fai discorsi sulla necessità di salvaguardare l'identità religiosa, l'identità etnica, ma nel frattempo la tua identità te la ricordi? ti sei visto ultimamente? Cosa ti è successo, sei cambiato, come sono cambiate le città più multietniche di Israele ormai a un passo dalla guerra tra bande. Come avete fatto a ridurvi così, era inevitabile? Forse succede a tutti i militanti, a un certo punto, di dover scegliere tra la causa e il senso del ridicolo. Forse. L'alternativa del resto quale sarebbe: vivere alla giornata, soppesare ogni argomento finché non va a male? Io ho questa cosa, che di fronte a un problema a volte non so cosa scrivere. So benissimo che scrivere non è la soluzione del problema, perlomeno fuori da me; dentro di me invece qualche fila decente di parole basterebbe a farmi sentire in pace con quel disastro che è il mondo, ma non le trovo – per fortuna! Poter dire che comunque avevo ragione io, mentre la casa va in fiamme: non mi è consentito. Son vent'anni che ho un blog e decisamente la mia prosa non ha apportato nessun contributo fattivo alla risoluzione della questione palestinese. È un problema? I sionisti da tastiera, loro sanno sempre cosa scrivere: sempre le stesse cose, che nella loro testa funzionano. Sembrano risolti. Felici no; un po' ansiosi, talvolta terrorizzati: ma risolti. Loro sono i buoni, fuori ci sono i cattivi e tramano, tramano, ma ognuno di loro può fare nel suo piccolo qualcosa per sconfiggerli, anche solo ripostare per la millesima volta l'articolo 7 dello Statuto di Hamas in una conversazione in cui nessuno sta sostenendo Hamas. Per loro è tutto molto semplice e anche tu, che non sei d'accordo con loro, dovresti fare loro il favore di assumere un punto di vista più semplice possibile: critichi Israele? E allora si vede che stai con Hamas e con nazisti, che poi è la stessa cosa. Confessa, dai, che ci vuole.  

A un certo punto della storia – non saprei veramente dire quando – il sionismo ha deciso di appostarsi mentalmente sull'ultima spiaggia, quella dove o si salva Israele o si muore. Da quel momento è saltato qualsiasi ragionamento sulle proporzioni: non che nei ministeri non li sappiano fare, ma nel dibattito non si può più: ogni razzo che parte da Gaza è una minaccia-alla-nostra-stessa-esistenza, ogni critica alle azioni di Tsahel o alle deliberazioni della Knesset è antisemitismo, ogni palestinese è un potenziale nazista, e contro queste minacce nessuna rappresaglia sarà mai esagerata. Ripeto: questo solo da un punto di vista ideologico, in realtà nella stanza dei bottoni i conti li sanno fare, però questi conti prima del cessate-il-fuoco prevedono sempre un rapporto 1:10 tra vittime israeliane e vittime palestinesi (approssimato molto per difetto). Questo per il resto del mondo è scandaloso, è guerra, è apartheid; per loro è routine. Bisogna anche ogni tanto sforzarsi di vedere la faccenda dal loro punto di vista; per noi quella tra Israele e palestinesi è ancora una guerra, infatti ce ne accorgiamo soltanto quella volta ogni 3-4 anni che partono i razzi. Per gli israeliani invece questa è la pace: non ne hanno mai avuta una molto migliore; senz'altro è preferibile al periodo in cui la gente saltava in aria sugli autobus (ai vecchi tempi uno stallo del genere, in cui i combattimenti sono periodici e coinvolgono solo una parte periferica della popolazione, veniva definita guerra fredda). Il ritiro da Gaza è stato decisivo: in cambio del controllo del suo feudo, Hamas si è in un qualche modo addomesticata. Per molti versi si è trasformato nel nemico ideale, quello che Israele ha coltivato (approfittando di ogni occasione per minare la legittimità di Al Fatah e dell'ANP). Di tutte le possibili identità palestinesi, Hamas ha sempre rappresentato quella meno presentabile all'estero: è un'organizzazione islamica, non ha mai rinnegato i metodi del terrorismo, riceve senz'altro aiuti dall'Iran ma alla fine un aiuto decisivo glielo dà Israele, che ogni 3-4 anni dà una bella sfrondata ai grattacieli di Gaza e alla classe dirigente intercettata nei tunnel, e il resto del tempo lascia che cresca in seno a una comunità che non ha alternative o speranze. Israele e Hamas si legittimano a vicenda, non è che la scopro io oggi questa cosa. Bisognerebbe trovare un modo per contrastarle entrambi ed è esattamente quello che entrambi ti impediscono di fare, continuando a tirarsi razzi in modalità asimmetrica.

Quel che è davvero terribile, è che la situazione ormai sembra essersi assestata. A noi sembra orribile, intollerabile (e anche molti sionisti, ogni 3 o 4 anni, condividono dall'altra parte della barricata lo stesso orrore; cioè su questo almeno dovremmo trovare un accordo: non può continuare così). Ma agli israeliani no, e anche agli abitanti di Gaza forse no. È orribile per noi osservatori, che abbiamo alternative. Una di queste alternative è guardare da un'altra parte, e dopo un po' lo facciamo. 

(Ah se me lo chiedete, io condanno Hamas. E l'occupazione marocchina del Sahara Occidentale. Per altre questioni chiedete nei commenti).

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Il Principe e il poveretto

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[È un pezzo di un mese fa, scritto di getto e gettato via già scritto quando Renzi faceva notizia per via delle sue frequentazioni saudite. Lui però insiste, così ecco qui].


Bisogna parlare di Renzi ma non riesco a concentrarmici, mi viene in mente tutt'altro, per esempio ho letto sul Post che molti influencer non fanno davvero tutte quelle marchette che dicono di fare. A volte mettono l'hashtag #gifted ma in realtà la borsa o la scarpa se la sono comprate in negozio, magari a prezzo pieno. È un mondo alla rovescio: nel nostro devi sempre dimostrare che le marchette non le fai, o se le fai che ti vergogni. Per gli influencer invece riuscire a fare marchette è un punto d'arrivo. Interessante, nevvero? E invece devo parlare di Renzi. 

Renzi fa gli accessi, Renzi attira l'attenzione, la gente viene in blog del genere, se viene, la poca che ancora viene, perché vuole leggere qualche cosa caustica su Renzi, e io non è che non me ne rendo conto; ma che posso scrivere che non sia stato già? Proprio mentre stava trattando per far cadere un governo, accampando accanto a questioni in parte condivisibili anche richieste evidentemente pretestuose (a un certo punto ha buttato lì che avrebbe preso i soldi del MES per il ponte sullo Stretto, che è un po' come fare all in su un tavolo di poker ma coi soldi del Monopoli), proprio in quel frangente Renzi si è fatto immortalare mentre intervistava un principe dell'Arabia Saudita, che di principi ne ha tanti, ma questo probabilmente è proprio quello che ha ordinato di fare a pezzi un giornalista dentro un'ambasciata. La notizia all'inizio l'ha data solo il Fatto Quotidiano, cioè in pratica l'organo degli hater di Renzi, il che ci autorizza a supporre che Renzi non ci tenesse così tanto a divulgare il suo incarico di cicisbeo presso una delle poche vere monarchie assolute rimaste al mondo. Una volta scoperto però Renzi mica poteva tirarsi indietro, e così ha prontamente spiegato che sì, lui adesso di mestiere fa il "public speaker", non è uno scherzo, perlomeno su Linkedin ha scritto così, ed è normale che i suoi public speaking lo portino in giro per il mondo a intervistare tra gli altri anche un principe saudita un po' sanguinario, e a irradiare sulla monarchia saudita un po' del glamour che gli sarebbe rimasto attaccato da Palazzo Chigi, e anche quella fiorentinità che gli serve per evocare un Rinascimento saudita. Tanto più che non lo fa mica per la gloria: per fare questi discorsi o queste interviste nel suo caso bisogna essere membri di un "board". Renzi ci guadagna 80.000 euro l'anno e ci paga le tasse in Italia, il che nella sua testa dovrebbe essere sufficiente a tacitarci. Invece è proprio a questo punto che nella mia testa cominciano ad affollarsi le più disparate considerazioni, ad esempio.

– Ma di cosa ti vanti poveraccio che con 80.000 euro un principe saudita non ci paga neanche la rata della Lamborghini per la concubina di secondo grado. Questo sei tu per lui, manco un autista. L'accompagnatrice dell'autista. Quella di scorta. 

– Ah, il Rinascimento, cioè quel periodo in cui i signorotti arricchiti rilevarono i titoli feudali dei principi medievali, accentrarono su di loro il potere e si misero ad ammazzare senza tanti complimenti chi non avevano a libro paga, col pensoso consenso degli intellettuali che piativano per incarichi a corte e formalizzavano le regole del perfetto cicisbeo. Ok Matteo Renzi, capisco dove vuoi arrivare.

– Renzi perdio l'abbiamo letto pure noi Machiavelli, lo sappiamo di che lagrime gronda e di che sangue lo scettro ai regnatori; che la politica sia sangue e merda ci è molto chiaro, ma questo significa sul serio che puoi sbracciarti con le mani sporche di entrambi, mettendoci la faccia, sei riuscito di nuovo a scrivere questa cosa, che in quel merdaio ci hai messo la faccia? Cioè lo sappiamo tutti che in politica estera bisogna essere amici di boia e tiranni, ma al punto da andarne fieri, dallo spiegare tutti contenti quanto fatturiamo al mese e all'anno col nostro secondo lavoretto presso il tal boia, il tal tiranno? 

– Per questo abbiamo abolito il finanziamento ai partiti: per selezionare finalmente una classe dirigente tutta fiera di mostrarti le sue fantasiose tecniche di fundraising, ad es noi ci facciamo dare totmila euro da un saudita sanguinario in cambio di visibilità, esatto sì, noi la diamo a lui, finché ci casca, certo, a proposito interessa una Fontana di Trevi quasi nuova? Una Battaglia di Anghiari praticamente mai usata?

– Stavi chiedendo la delega ai Servizi, e qualcuno ha avvisato il Fatto che nel frattempo eri in missione privata in Arabia Saudita. Probabilmente non otterrai la delega ai Servizi.

–  Ho letto sul Post che molti influencer non fanno davvero tutte quelle marchette che dicono di fare. Il punto è che la marchetta è proprio quello che vogliono fare da grandi, e nel frattempo per dimostrare le loro capacità le fanno gratis, o comunque per un tozzo di pane, tendendo spesso a esagerare la percentuale di marchetta di quello che fanno. È un mondo così. Un po' triste, però.

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Chi ha paura del profeta Ezechiele

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10 aprile - Sant'Ezechiele, profeta (620-550 aC circa).

[2012]. I profeti biblici più familiari ai bambini della mia generazione erano Zaccaria ed Ezechiele. Zaccaria era il nome di un cono pralinato, la risposta Algida al Blob Toseroni; Ezechiele, beh, era Ezechiele Lupo, quello che dava la caccia ai porcellini nelle storie centrali di Topolino. Il motivo per cui il Big Bad Wolf del più fortunato cortometraggio di Walt Disney a un certo punto sia stato ribattezzato "Zeke" in inglese ed "Ezechiele" in italiano non è tuttora stato chiarito, e il sospetto che c'entri un qualche pregiudizio antisemita non è mai scomparso del tutto. Senz'altro nella sua prima apparizione cinematografica il Lupo Cattivo si travestiva anche da venditore ambulante di spazzole affettando un accento yiddish: e sappiamo che il riferimento era già considerato offensivo nel dopoguerra, quando la Disney portò in tv una versione autocensurata del cortometraggio.



(Però c'è anche chi sostiene che la versione originale sia quella a destra, e che la maschera col nasone sia un'aggiunta successiva: la Disney non ha nessun interesse a chiarire la situazione).

Per Laurence Olivier il personaggio disneyano era ispirato a un suo Riccardo III, e in quest'ultimo Olivier aveva voluto ritrarre un produttore teatrale che detestava, Jed Harris, nato a Vienna da famiglia di origini ebraiche come Jacob Hirsch Horowitz. Potremmo persino sforzarci di cercare nella ferinità del personaggio e nella sua determinazione a cucinare i grassi e rosei porcellini qualche traccia delle più nere leggende medievali sugli infanticidi rituali degli ebrei. Però per quanto grassi e rosei sono pur sempre porcellini; se Ezechiele Lupo fosse anche solo una caricatura di ebreo, non dovrebbe andarne così ghiotto. Del resto i nomi biblici negli USA erano condivisi da ebrei e protestanti, e forse Ezechiele è più popolare presso questi ultimi. Non il lupo, dico: proprio il profeta.

C'è poco da scherzare, con Ezechiele Profeta. Stiamo parlando di uno degli scrittori più influenti della storia. Ebrei, musulmani e cristiani di tutte le confessioni lo venerano come uomo di Dio; persino gli ufologi lo apprezzano molto per quella pagina in cui si ritrova al cospetto della gloria divina su una specie di carro alato che è la cosa più simile a un'astronave aliena che sia possibile trovare nella Bibbia; non solo, ma persino il processo di pace in Medio Oriente (e quindi nel mondo intero) dipende non in minima parte dall'interpretazione di alcuni suoi versetti oscuri - non sto scherzando, e non è il solito complotto rettiliano, è tutto alla luce del sole purtroppo.

È curioso, ma non del tutto inappropriato, che a tanta fama Ezechiele sia arrivato senza essere un grande scrittore: lo schiaccia soprattutto il confronto con gli altri due profeti maggiori della Bibbia, Isaia e Geremia, che lo precedono nel canone biblico. A Ezechiele manca l'afflato lirico del primo, e il pathos rancoroso del secondo; ma forse è proprio per compensare le sue carenze stilistiche che è costretto lavorare con gli effetti speciali, inventando un nuovo stile visionario e teatrale a base di mostri, oggetti volanti, battaglie titaniche, morti che risuscitano... già qualche esegeta ebreo storceva il naso, considerandolo un contadino al cospetto del nobile Isaia, eppure le sue allucinazioni avranno un enorme successo. Postumo, ovviamente, perché i grandi profeti biblici in vita sono quasi sempre inascoltati e sbeffeggiati. Nemmeno l'aver azzeccato la caduta di Gerusalemme e la deportazione nella Babilonia di Nabucodonosor II gli guadagnerà la stima dei contemporanei. Con Ezechiele però comincia la letteratura apocalittica, quella che descrive un futuro imminente o remoto a base di visioni allegoriche e oscure. Alle sue macchine volanti e alle sue battaglie finali si ispireranno gli autori del Libro di Daniele e dell'Apocalisse di San Giovanni. Ma il contributo di Ezechiele alla storia del mondo non si conclude certo lì.

Siamo nei primi mesi del 2003. L'invasione angloamericana dell'Iraq è ormai data per certa: si tratta soltanto di definire i dettagli, capire chi abbia voglia di dare una mano (Berlusconi, in quel momento, pochissima). Jacques Chirac è all'Eliseo che sbriga le sue faccende quando gli passano il telefono più importante che hanno, non so se all'Eliseo ci siano i telefoni colorati come una volta alla Casa Bianca, ma è un dettaglio che ci possiamo anche inventare e non farà sembrare la storia meno verosimile. Insomma, dall'altra parte del filo c'è George W. Bush. Chirac quando prende in mano la cornetta si immagina già cosa il tizio più potente del mondo vorrebbe da lui: l'appoggio francese alla Coalizione dei Volenterosi. E tuttavia Bush riesce ugualmente a sorprenderlo. Le Président non riesce a capire di cosa stia parlando: non è un problema linguistico, c'è senz'altro un interprete in mezzo, ma i ragionamenti di Bush sono talmente sconnessi che farfuglia anche l'interprete. Ci sono due tizi, Gog e Magog, operativi in Medio Oriente... una profezia biblica si sta per compiere e una nuova era sta per giungere, et toute cette sorte de conneries. Chirac si mantiene sul vago, le faremo sapere, e poi chiama il suo staff: si può sapere chi sono questi Gog e Magog, e perché io non ne sapevo niente? Che figure mi fate fare in società?

Lo staff, invece di limitarsi a googlare, chiama un esperto di Scritture, Thomas Römer dell’università di Losanna. Di questa storia c’è la testimonianza di Chirac e quella di Römer, non la sto inventando io, non sono così bravo. Römer ridà una controllatina ai testi per essere sicuro di non essersi perso niente, e poi spiega: “Gog e Magog” è un modo di dire che compare una volta sola nell’Apocalisse di Giovanni, in un passo in cui gli eserciti della terra si stanno radunando per la battaglia finale (non è l’Armagheddon, è qualcosa di ancora più definitivo, mille anni dopo). Gog e Magog insomma vuol dire tutto e niente, è un po’ come Tizio e Caio, questo e quello, e patatì e patatà: insomma, se arrivano anche Gog e Magog vuol proprio dire che alla battaglia ci saranno tutti. Dietro c’è un riferimento ormai stereotipato e quasi irriconoscibile a Ezechiele 38, in cui si parla di un Gog re di Magog, che invaderà Israele da nord alla testa di una coalizione di maligni, per volontà di Dio, e da Dio stesso Magog sarà sbaragliato con pioggia scrosciante, pietre di ghiaccio, fuoco e zolfo
Così mi magnificherò e mi santificherò e mi farò conoscere agli occhi di molte nazioni, e riconosceranno che io sono l’Eterno».
Dis donc mais tu rigoles, n'est-ce pas?
Seguono in Ezechiele 39 i dettagli su dove scavare una fossa comune grande come una città, perché di Magog non resterà un solo superstite: il profeta calcola che solo per seppellire i nemici gli ebrei ne avranno per sette mesi. “Cosí da quel giorno in poi la casa d’Israele riconoscerà che io sono l’Eterno”, un Eterno che quando c’è da distruggere non bada a spese, tanto poi a pulire c’è la casa d’Israele, ma vabbe’, dettagli. Chirac a questo punto ha un brivido: sul serio il presidente degli Stati Uniti mi ha chiamato per farmi un sermone apocalittico? Sul serio pensa che io, il punto di arrivo del più laico dei sistemi educativi, possa bermi una profezia escogitata quasi tre millenni fa? Oppure, il che è peggio, è in buona fede! cioè queste per lui non sono solo le chiacchiere che si dicono e si ascoltano per raccattare voti nella Bible Belt, ci crede veramente in Gog e Magog e compagnia bella? Devo insomma pensare, con la mia cultura laica e illuminista, che l’unica superpotenza mondiale è governata da un mattoide fanatico? E suo padre, il petroliere, lo sa? La Francia non entrò nella Coalizione dei volenterosi, questo lo sapete tutti. Ma ci resta il dubbio: quello di Bush fu il discorso sincero di un cristiano “born again”, o un semplice modo di dire mal calibrato? Magari Bush voleva soltanto parlare un po’ colorito, attingendo al suo vocabolario di riferimento, che nel suo caso è la Bibbia così come nel caso di Berlusconi è un libro illustrato di barzellette sconce.


Nel corso dei secoli “Gog e Magog” è diventato davvero un modo di dire per chi mastica un po’ di Bibbia, e forse se Chirac fosse provenuto dal sistema educativo italiano le tre sillabe non lo avrebbero trovato impreparato: di Gog e Magog parla Marco Polo, piazzandoli da qualche parte a nord nel suo planisfero immaginario. Di Gog e Magog parlano un po’ tutti gli apprendisti fantarcheologi del medioevo, tutti sicuri di avere trovato la chiave del mistero: sono i Romani, anzi no, sono i Barbari che invadono l’impero, più precisamente i Goti, no, meglio, gli Unni, ma perché non gli Ungari? Senz’altro Ezechiele aveva in mente gli Ungari… anche se, aspetta, anche questi Khazari… e i Tartari, massì, sono chiaramente i Tartari. Nel frattempo il folklore europeo li trasforma in due giganti; su Gog e Magog, popoli affamati che non osano oltrepassare il cancello eretto dal grande Alessandro, Giovanni Pascoli scrive uno dei suoi più suggestivi poemi conviviali. Insomma, uno studente italiano non dovrebbe avere scuse, noi la Bibbia la studiamo. O no?

Anche di carte come queste, su google images
ce n'è un fottio. Ognuno è il Gog e Magog di qualcun altro.
Credo che dovremmo. La Bibbia è un libro sacro, che Dio l’abbia dettata o no. Non ha così importanza: se uno o più popoli si scelgono un libro sacro, quello diventa sacro per forza. Se contiene delle profezie, alcune si avvereranno. Non è solo statistica (in fondo, che ci vuole a immaginare un’invasione del nord da qui a un migliaio d’anni): un popolo che crede in una profezia prima o poi la fa avverare. Il problema con la Bibbia è che molte profezie finiscono con enormi fosse comuni, e anche al popolo di Dio viene pronosticato un futuro da becchini intensivi.
Per questo io, che non ho nessuna paura del calendario dei Maya, ogni volta che sento parlare del programma nucleare iraniano e degli eventuali raid israeliani ho un brivido: ci risiamo, penso, Gog e Magog…

Tra i loro alleati (38,5) “la Persia, l’Etiopia e Put”. La Persia, si sa, oggi si chiama Iran. L’Etiopia, è vero, sembra in tutt’altre faccende affaccendata, ma nei pressi c’è quel ribollente calderone che è il Sudan (e il Sud Sudan). Quanto a Put… meglio non pensare a come si chiama l’autocrate di un grande impero settentrionale che al momento è il migliore amico dei persiani moderni. La punizione di Dio, a base di pioggia zolfo e pietre di ghiaccio, ha tutta l’aria di un armamento non convenzionale. Lo so, sono solo coincidenze. Ma non ha importanza: quel che importa è che qualcuno le trovi verosimili, e che possa concretamente dare una mano al caso affinché la profezia di una battaglia apocalittica si autoavveri. Ma chi? Non gli ebrei, che l’Apocalisse di Giovanni non la leggono, e anche Ezechiele lo prendono con le molle. Viceversa, negli Stati Uniti, milioni di cristiani evangelici (bisognerebbe chiamarli evangelicali, ma è un nome così brutto) prendono il loro contenuto per oro colato. E votano.

Bush jr non fu il primo presidente a parlare di Gog & co.; trent’anni prima li aveva evocati Reagan: ovviamente lui pensava all’URSS. In seguito Iraq e Al Qaeda hanno avuto il loro momento; adesso tocca all’Iran. Gli evangelicali si dividono in tante congregazioni e credenze; alcuni aspettano il regno millenario di Gesù, per altri il regno è già finito e siamo alla battaglia finale; su una cosa però tutti concordano, ed è che la battaglia prevista da Giovanni (e da Ezechiele) potrà avere luogo soltanto se il popolo di Israele si fa trovare là; insomma, affinché il disegno di Dio si realizzi compiutamente, ci dev’essere uno Stato Ebraico e dev’essere attaccato da nord. Dopodiché, apocalisse per tutti, ebrei compresi – solo allora accetteranno che Gesù Cristo è il Messia, prima no. La sto raccontando come una barzelletta perché non vorrei annoiare nessuno, ma non c’è niente da scherzare: è un’interpretazione della Bibbia come tante, ma è anche la chiave di volta dell’alleanza tra cristiani fondamentalisti americani – il cuore dell’elettorato repubblicano – e sionisti israeliani. Giusto per sfatare il mito della lobby ebraica: no, negli USA milioni di appassionati sostenitori (e talvolta finanziatori) dello Stato di Israele sono cristiani, cristiani born again. Per loro c’è un motivo escatologico per cui Israele deve stare proprio là, non esattamente al riparo, anzi in balia degli invasori del nord. Il tutto alla luce del sole, perché tutto si può dire dei cristiani rinati salvo che facciano mistero dei loro piani.

Insomma, gli ebrei di Israele non hanno solo dei nemici che dichiarano di volerli eliminare dalla cartina geografica, ma anche dei simpaticissimi “amici” che li vogliono tenere lì a fare da esca escatologica per Gog e Magog, Saddam Hussein e Ahmadinejad e tutti gli altri mostri della fine del mondo: e tutto questo magari perché una notte di duemilaseicento anni fa sant’Ezechiele profeta aveva mangiato un po’ pesante. E questa è la nostra storia, la storia dei nostri giorni e dei prossimi futuri. Voi direte che no, la nostra storia è fatta di altro: di democrazia e totalitarismo, denaro e materie prime, gasdotti e oleodotti, e che tutto questo è molto più importante delle profezie di Ezechiele. Ecco, mi piacerebbe darvi ragione, perché se è una questione di soldi e di petrolio, in un qualche modo ci si può mettere d’accordo. Ma se c’entra anche la Bibbia, se c’è gente importante che ci crede davvero e non fa finta, beh, per sapere come va a finire basta leggere Ezechiele 39:

«In quel giorno avverrà che darò a Gog, là in Israele un luogo per sepoltura, la valle di Abarim, a est del mare; essa ostruirà il passaggio ai viandanti, perché là sarà sepolto Gog con tutta la sua moltitudine; e quel luogo sarà chiamato la Valle di Hammon-Gog.

La casa d’Israele, per purificare il paese, impiegherà ben sette mesi a seppellirli.

Li seppellirà tutto il popolo del paese, ed essi acquisteranno fama il giorno in cui mi glorificherò», dice il Signore, l’Eterno...
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Netanyahu è d'accordo con Hamas (lo dice lui)

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"Siete pronti per una notizia bomba?" Lunedì scorso, quando ormai le notizie da Gaza erano scomparse dal radar, Benjamin Netanyahu si è rifatto vivo sulla mia bacheca con queste parole. "Sono completamente d'accordo coi leader di Hamas".
Così tipico di Netanyahu, promettere bombe – nel senso di rivelazioni sconvolgenti che magari davvero vanno a segno, specie presso un pubblico distratto. Chi invece segue la questione palestinese da un po', per mestiere o per inerzia, o perché non riesce a distogliere lo sguardo dallo spettacolo di una lentissima e inarrestabile decomposizione, di che cosa può stupirsi ancora? Nell'ultimo mese sono morti più di sessanta palestinesi, forse nel modo più assurdo in cui potevano morire: hanno cercato di varcare il confine della Striscia davanti ai cecchini. Qualcuno senz'altro non si rendeva conto dell'assurdità; qualcun altro non aveva nulla da perdere; qualcuno eseguiva gli ordini o pensava alla pensione che Hamas paga ai parenti di ogni martire. Ora sono tutti morti e Hamas li reclama tutti come suoi. Un movimento di protesta che era nato non-violento è stato completamente fagocitato dalla macchina da martiri di Hamas: a un danno simile il sornione Netanyahu deve per forza aggiungere la beffa.


I leader di Hamas, ci spiega, dicono che è ingannevole definire questa protesta "pacifica", e senz'altro è così; molti hanno cercato di passare il confine armati, e hanno piazzato cariche esplosive anche sugli aquiloni. Non c'è nulla di pacifico in tutto questo: lo dice Hamas, lo dice Netanyahu, insomma non c'è da preoccuparsi. Chiunque morirà nei prossimi giorni sarà senz'altro un terrorista. Almeno cinquanta caduti erano militanti di Hamas, spiega Netanyahu: lo ha detto uno dei loro leader, non importa che altri membri di Hamas lo abbiano smentito. Chi segue la vicenda da un po' non ha davvero di che sorprendersi. Tra i due nemici asimmetrici, Israele e Hamas, c'è un obiettivo comune: dimostrare che Hamas e la Striscia di Gaza sono la stessa cosa. Se la Striscia protesta, è perché si mobilita Hamas; se Israele può reprimerli, è perché è in guerra con Hamas. E noi spettatori attoniti, noi che ancora perdiamo tempo a provare pietà, ora dobbiamo scegliere: o stiamo con Israele o stiamo con Hamas, che (Netanyahu ci ricorda) è un'organizzazione terrorista. Vogliono infatti sterminare gli ebrei; poco importa che non riescano più a fare qualche passo oltre il confine senza essere falciati. Hamas è forse il miglior nemico che Israele poteva procurarsi, e in un certo senso se lo è procurato; non mi riferisco tanto alle circostanze che portarono gli israeliani negli anni Ottanta a sostenere un nucleo di integralisti islamici in funzione anti-OLP, ma a tutto quello che è successo dal fallimento di Oslo in poi. I governi israeliani avevano bisogno di dimostrare al mondo che i palestinesi erano fanatici antisemiti: l'anziano Yasser Arafat, malgrado insistesse a portare con sé la pistola nella fondina e chiedesse di morire come martire, non era abbastanza credibile in questo senso (continua su TheVision)



Hamas invece funzionava egregiamente, e se non fu l’unica organizzazione ad abbracciare la tattica degli attentati suicidi, fu quella che ci investì più risorse: vite umane, dinamite, pensioni ai parenti. Senza Hamas i palestinesi non sarebbero mai diventati, agli occhi degli spettatori occidentali, una tribù di disperati assimilabili ad Al Qaeda. Quando poi nel 2005 Sharon spiazzò tutti ritirandosi dalla Striscia di Gaza, Hamas divenne la forza egemone di una Città-Stato isolata dal resto del mondo, un esperimento sociale che si protrae da allora. Hamas, branca della Fratellanza Musulmana, non è solo in guerra con Israele: anche l’Egitto ha chiuso la frontiera, e persino l’Autorità Nazionale Palestinese raziona l’energia elettrica per punire gli abitanti del loro sostegno al partito integralista. La vita dei due milioni di palestinesi che vivono nella Striscia sarebbe difficile anche se Hamas non destinasse gran parte delle sue risorse alla guerra (razzi, gallerie); una guerra sempre più asimmetrica e disperata che ciclicamente espone la popolazione di Gaza alle rappresaglie sproporzionate di Israele. Nel 2014 l’operazione Margine di Protezione causò più di 2000 morti tra i palestinesi (di cui la metà civili) e 71 vittime israeliane. Nel 2009, l’operazione Piombo Fuso aveva visto una sproporzione di uno a cento: tredici vittime israeliane, circa un migliaio di palestinesi. Chi parla di genocidio, però, è evidentemente fuori strada. D’altro canto si tratta di una situazione davvero particolare, che a qualcuno ha fatto venire in mente le guerre rituali che si combattevano nelle antiche polis Greche: la più famosa è la guerra che ogni anno gli Spartiati dichiaravano ai membri della casta inferiore, gli Iloti.

Le guerre rituali non si combattevano per il territorio (e infatti dopo ogni operazione la Striscia viene riconsegnata a Hamas); erano probabilmente connesse con le cerimonie di iniziazione che trasformavano i giovani in adulti, e servivano per fortificare l’identità delle caste in cui erano suddivise le polis. La guerra a bassa intensità che si combatte ciclicamente a Gaza offre ai giovani israeliani che fanno il servizio di leva un battesimo delle armi non privo di pericoli (ma nemmeno troppo pericoloso); mantiene la società israeliana in uno stato di allerta permanente contro un nemico esterno; ricorda alla comunità internazionale che Israele è minacciata nella sua stessa esistenza. La guerra a bassa intensità serve a mantenere uno status quo che evidentemente ai leader che gestiscono i fondi di Hamas non dispiace: tanto peggio se nel frattempo a Gaza la disoccupazione è oltre il 40%, e l’80% della popolazione vive grazie agli aiuti umanitari. La povertà crea disperazione, la disperazione fomenta i martiri, ogni martire è un successo per Hamas che lo rivendica e per Israele che lo abbatte in modo sempre più efficiente. Chi tenta di fuggire finisce falciato nel mucchio e rivendicato comunque tra i combattenti. Se non saranno i leader di Hamas a farlo, ci penserà Netanyahu, che la vede allo stesso modo: chi vuole uscire da Gaza non può che essere un terrorista. No, davvero, che si dica d’accordo con Hamas non sorprende.
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Se non bombardi sei isolato in Europa, dice il Pd (lo dice davvero)

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Ora può anche darsi che il Movimento 5 Stelle sia una setta di improvvisatori che nella stanza dei bottoni farebbe soltanto danni. Può benissimo darsi. Mentre la Lega è la solita cricca populista, razzista e ultimamente pure filoputiniana: sono abbastanza d'accordo che sia così. Mentre il Pd, quel che resta del Pd, dovrebbe essere il partito responsabile eccetera. Va bene. Però a questo punto, caro partito adulto e responsabile che ha deciso di stare fermo un giro per far giocare gli irresponsabili, spiegami una cosa: perché lasci fuori in giro un tizio come Andrea Romano senza guinzaglio o museruola? A rischio che vada a un talk show ad abbaiare cose?


Cioè mi rendo conto che "abbaiare" è un po' forte, ma come si fa infilarsi in un guaio del genere? Che Salvini sia stato filoputiniano (come lo era Trump prima di entrare alla Casa Bianca, e tuttora ogni tanto gli sale il riflusso) non c'è dubbio, e forse un buon comunicatore politico a questo punto non sbaglierebbe a farlo notare. Che abbia sostenuto Saddam Hussein è ridicolo, una fake news grossa come una casa, il modo più spiccio per mettersi dalla parte del torto. Ma questo è solo un piccolo dettaglio. Con questa meravigliosa abbaiata ponderatissima dichiarazione, Andrea Romano è riuscito a sembrare meno serio di Salvini e più guerrafondaio di lui. E dici: pazienza. Magari non ha il polso del suo elettore-tipo, sai questi giovani geni quando bombardavamo il Kossovo e ci ammazzavano a Nassiriya stavano studiando sodo, sodissimo, e si sono persi le manifestazioni. Recupererà. Crescerà. Eh, ma in calce c'è già scritto: Partito Democratico. Cioè in attesa di sapere chi sta dirigendo il Partito Democratico, la linea agli esteri la ulula Andrea Romano in tv, con questi meravigliosi risultati.



Ovviamente, poche ore dopo non si è mossa soltanto la cancelliera Angela Merkel, per farci sapere che non ha nessuna intenzione di partecipare a un bombardamento della Siria (e non ci voleva molto a immaginarlo, visti i precedenti: ma ecco, pare che l'esperto di Esteri on. Andrea Romano non li conosca). No, a poche ore da questo fantastico tweet ufficiale del Partito Democratico, il capo del governo Gentiloni ha chiarito che "l'Italia non parteciperà ad azioni militari in Siria". Per dire quanto rischia di restare isolata la posizione di Salvini.

Il quale Salvini fin qui che io sappia ha dichiarato soltanto: "Che qualcuno pensi ad una terza guerra mondiale farneticando di bombe e di missili sulla pelle di donne e bambini è assolutamente impensabile". Notate: non propriamente detto che la Siria non ha usato armi chimiche (ma chi non ci vuole credere penserà che Salvini gli dà ragione). Ha invece senz'altro detto che è impensabile scatenare la terza guerra mondiale per questo. Io penso che Salvini sia il leader di una cricca populista fascista e putiniana: mi addolora molto notare come risulti molto più professionale degli attuali portavoce del Pd. Più misurato, più affidabile, temo persino più responsabile – non che ci voglia tantissimo, eh: basta non precipitarsi a bombardare appena Trump e Macron dicono che è il caso. No, basterebbe pochissimo, ma quel pochissimo il Pd in questo momento non ce l'ha. Ha Andrea Romano.
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Dell'Iran (non capiamo niente)

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L’Iran non è mai quello che ti aspetti. Quando verso la fine di dicembre abbiamo iniziato a sentir parlare di proteste, la prima immagine che abbiamo messo a fuoco era quella di una donna giovane che si toglieva il velo e lo sventolava in una strada di Teheran. Semplice e perfetta. Per Roberto Saviano era “il simbolo della rivolta in Iran. Non una rivolta contro il velo ma contro l’obbligo del velo”.

Nel giro di poche ore abbiamo però scoperto che la foto, per quanto potente, non aveva a che fare con le proteste, che non erano nate a Teheran ma a Mashhad (seconda città dell’Iran) e che non sembravano riguardare il velo, ma i rincari dei prezzi e le difficoltà economiche causate da una crisi finanziaria. È una protesta molto diversa dall’Onda Verde del 2009, scriveva una settimana fa sul New York Times lo scrittore iraniano-americano Amir Ahmadi Arian. A protestare non è la classe media, ma quella metà della popolazione a cavallo della soglia della povertà (40 milioni di iraniani): “la folla dei mangiapatate”, come li definisce il giornalista dissidente Ebrahim Nabavi. È una classe sociale che non solo non ha il velo tra le proprie priorità, ma che osserva con rabbia crescente lo spettacolo dei giovani rampolli iraniani, la riccanza locale che ostenta un lifestyle ben poco islamico. “I giovani ricchi iraniani si comportano come una nuova classe aristocratica, inconsapevoli delle origini della loro ricchezza”, scrive Arian. Quel che è peggio è che la postano su Instagram, su account eloquenti come TheRichKidsOfTeheran (“Questo è RKOF, ti avvertono: se sei politicamente frustrato, scoreggiati altrove”). Altro che obbligo di portare il velo: qui c’è gente che posa in bikini a bordo piscina, semplicemente perché può permetterselo (continua su TheVision).


Ci aspettavamo un movimento per i diritti civili, per la libertà di espressione, e invece questi mangiapatate se la prendono per cose proletarie come il carovita. Pensavamo che le protagoniste delle dimostrazioni fossero le donne, ansiose di togliersi il velo, e invece a dominare la scena sono gli iraniani delle aree rurali, ostili verso chi il velo può permettersi di toglierlo, in barba alla shari’a. Speravamo che gli smartphone li avrebbero aiutati a coordinarsi e a comunicare con l’estero (via Telegram e Signal), e invece salta fuori che molto spesso si riducono a uno spaventoso catalizzatore di invidia sociale (via Instagram). Ci aspettavamo una protesta civile, nonviolenta, come l’Onda del 2009, e abbiamo una massa scomposta e forse manovrata dalla frangia ultraconservatrice: l’ex presidente Ahmadinejad sarebbe agli arresti con l’accusa di aver “incitato alla rivolta”. Durante i suoi mandati le cooperative di credito avevano attirato i piccoli risparmiatori, offrendo interessi inverosimili e mandandoli sul lastrico: quando il governo del successore Rouhani ha tentato di normare il settore il sistema è crollato come un castello di carte e ora chi ha perso tutto se la prende con i politici.

Le cose probabilmente sono ancora più complicate di così, soprattutto ora che la protesta è arrivata a Teheran ed è diventata più interclassista. Azar Nafisi (l’autrice di Leggere Lolita a Teheran) su Repubblica domenica scorsa ha ribadito che le donne sono “sempre in prima fila”, e che “stanno portando avanti questa campagna contro il velo”, anche se “non è contro il velo e basta che si battono. È in nome della libertà di scelta…” Anche la Nafisi è un’esule, vive negli USA: uno dei motivi per cui facciamo fatica a raccapezzarci su quanto accade in Iran è che molte delle informazioni filtrano attraverso i contatti – complicati – mantenuti da parte di chi è fuggito. I corrispondenti esteri sono pochi e faticano a uscire da Teheran, che come tutte le capitali non è la città più adatta a capire quel che succede nel Paese profondo.

In una situazione del genere è abbastanza normale che ciascuno proietti sul mistero dell’Iran le proprie ombre: e il velo in questi casi è sempre la prima cosa di cui si parla, il dettaglio più appariscente. Può darsi che non sia l’attuale priorità dei manifestanti che scendono nelle strade a rischio della propria vita: ma di sicuro è una nostra priorità, di occidentali globalizzati che con le donne velate nei luoghi pubblici hanno appena cominciato a convivere, perlomeno in Italia. Forse per gli iraniani il velo è davvero un simbolo, di sicuro lo è per noi. Ed è di noi che stiamo parlando quando crediamo di parlare dell’Iran. Una popolazione povera che protesta contro un brusco rincaro dei prezzi (contro la fame, insomma) è qualcosa di lontano dalla nostra quotidianità, dalla nostra sensibilità. Un gruppo di donne che vuole sfilare a testa scoperta è molto più facile da capire.

L’Iran moderno è un Paese isolato che comunica per lo più attraverso i suoi dissidenti. Gran parte di loro facevano parte di una classe media che forse è quella che ha maggiormente sofferto l’avvento del regime oscurantista degli ayatollah. È lo spicchio sociale descritto con straordinaria efficacia in Persepolis, il fumetto e libro di Marjane Satrapi – anche lei esule, in Francia. La Teheran in cui cresce la protagonista è una città che partecipa alla rivoluzione del 1979 con entusiasmo. La famiglia di Marjane è relativamente benestante (la giovanissima protagonista scopre di discendere da una famiglia di principi); uno dei suoi zii è un dissidente comunista, scarcerato durante la rivoluzione e prontamente riarrestato quando i pasdaran prendono il potere. Di fronte alla notizia che gli islamici hanno stravinto le elezioni, reagisce con la flemma del materialista storico: l’Iran è un Paese di contadini – dice – è normale che votino per gli uomini di religione. La Satrapi non potrebbe raccontare la storia di quei contadini, e quel che rende Persepolis una storia straordinariamente onesta ed efficace è proprio il fatto che nemmeno ci prova: il suo è il punto di vista di una figlia della borghesia che durante gli anni della guerra assiste alla perdita dei propri privilegi. È un milieu che tenta di risollevarsi il morale organizzando feste clandestine in cui si può ancora ballare la disco e bere alcolici: fuori, in strada, pattugliano ragazzini fanatici talmente giovani che non riescono a farsi crescere la barba – l’età media della popolazione non raggiunge i 30 anni.

In una delle scene più rivelatrici, una conoscente di Marjane, costretta a chiedere un visto per far operare suo marito all’estero, scopre con orrore che il funzionario che glielo può concedere – l’uomo che ormai ha diritto di vita o di morte su suo marito – è il suo ex lavavetri. Per lo spettatore progressista occidentale è un po’ il momento della verità: fino a che punto saresti pronto ad accettare una rivoluzione? E se il ribaltamento degli assetti sociali portasse il tuo lavavetri su un gradino più alto del tuo? Dal nostro punto di vista è difficile accettare che quella del 1978-1979 sia stata una vera rivoluzione, dal momento che ha condotto l’Iran a un regime teocratico e oscurantista. Per il ceto borghese delle città è stato senz’altro un passo indietro: ma per il popolo delle campagne? Ogni tanto un quotidiano italiano ripubblica foto di donne iraniane prima della rivoluzione, a capo scoperto e vestite nelle tinte sgargianti che negli anni ‘60 e ‘70 potevano andare di moda anche da noi. Il messaggio è chiaro: la Persia dello Shah era un Paese in procinto di diventare una democrazia occidentale, gli ayatollah hanno interrotto quello che ci sembra il progresso naturale delle cose. Ma quelle foto selezionano una classe sociale ben precisa, la borghesia cittadina: nelle campagne, e nei ceti più umili, il velo resisteva. Possiamo considerarlo un simbolo religioso, e odiarlo per la sottomissione che implica, ma è anche un simbolo sociale: è la campagna (tradizionalista, clericale) che vince sulla borghesia cittadina e sulle sue velleità cosmopolite. Appena sentiamo che l’Iran si rivolta, speriamo che c’entri in qualche modo il velo: vorremmo che fosse una protesta moderna, una campagna sui diritti civili, come quelle che combattiamo in occidente e che ormai coincidono con l’agenda progressista di qualsiasi partito di centrosinistra.

Lo zio marxista di Marjane forse direbbe che abbiamo perso la coscienza di classe, e che ci siamo dimenticati che anche l’obbligo del velo è una sovrastruttura. Che le donne smetteranno di indossarlo quando conquisteranno un potere contrattuale che nella società iraniana ancora non hanno, e che conseguiranno quest’ultimo dopo aver conquistato il lavoro e il diritto di voto: perlomeno nelle nostre campagne è andata così. Allo zio, però, potremmo rispondere che le cose si sono rivelate più complesse; per esempio si è scoperto che la Storia non va necessariamente in una direzione. Si pensava che una rivoluzione sociale diretta dal clero sciita fosse un controsenso, ma è un controsenso che va avanti da 40 anni, ormai. Forse più che di progresso bisogna parlare di adattamento all’ambiente, e che finché funziona, il regime degli ayatollah ha dimostrato di sapersi adattare. Un giorno comunque finirà, perché tutto finisce: possiamo sperare che finisca presto, anche se da qui ci è impossibile capire come.
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Chi la sapeva lunga su Regeni

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Quando, ormai due mesi fa, il cadavere di Giulio Regeni fu ritrovato sul ciglio di una strada, con evidenti segni di tortura, apparve subito chiaro che il governo egiziano era in imbarazzo. Le varie ipotesi divulgate dagli inquirenti - un incidente stradale, una rapina, una "vendetta personale" - erano talmente goffe da apparire tentativi di depistaggio: e non c'è motivo di depistare se non si è in qualche modo implicati.

"Io so".
Eppure, anche in una situazione del genere, tra gli opinionisti italiani c'era chi la sapeva più lunga: chi ci spiegò subito che i responsabili del sequestro e del delitto andavano cercati altrove; non emissari del governo, e nemmeno elementi 'deviati', no: Regeni dovevano averlo ammazzato gli oppositori: i Fratelli Musulmani.

A distanza di quasi due mesi, alcuni di questi pareri molto competenti rischiano di sparire dalla prima pagina dei risultati di google. In un certo senso è un peccato, così li incollo qua sotto. Questo è un giornalista di lunga e provata esperienza, Toni Capuozzo, intervistato da Adriano Scianca il sei febbraio per Libero (Capuozzo, la verità sull'omicidio di Giulio: "Vi dico io chi può averlo ucciso"):

«La mia», spiega, «è una conclusione logica: il regime non aveva interesse a compiere questa uccisione [...] I dettagli dell' omicidio raccontano di un interrogatorio condotto con odio e volontà punitiva. Mi pare più probabile che alcuni gruppi organici ai Fratelli musulmani o comunque all'opposizione fondamentalista ad al-Sisi lo abbiano scambiato per una spia.
Giulio era un occidentale, frequentava l'università americana, faceva domande in giro: evidentemente qualcuno lo ha scambiato per ciò che non era e lo ha interrogato, torturandolo, affinché confessasse cose che in realtà non sapeva.
Poi l'ha lasciato in condizioni tali da imbarazzare il regime. Viceversa, anche il peggiore squadrone della morte al servizio di al-Sisi lo avrebbe fatto sparire senza lasciare tracce».

Due giorni dopo Ugo Volli su Informazione Corretta, dopo aver premesso - come Capuozzo - che non conosce molto il caso, ci spiega che il governo non può aver fatto uccidere un ricercatore italiano, semplicemente perché non gli conviene. Invece a chi conviene? Agli islamici. Hanno ucciso Arrigoni (che si fidava di loro) a Gaza, quindi possono aver ucciso Regeni. "Ed è chiaro che questa morte danneggia il governo egiziano, nemico degli islamisti che Regeni frequentava e di cui si fidava, come a suo tempo Arrigoni a Gaza, ben più di un normale attentato. La logica del “cui prodest” punterebbe dunque ai nemici di Al Sisi più che sul governo egiziano").

Nel frattempo emergono testimoni che parlano di poliziotti in borghese che seguivano Regeni; di persone entrate nella sua stanza in cerca di documenti; malgrado tutto questo, venti giorni dopo Angelo Panebianco è ancora convinto che sia stata la Fratellanza Musulmana. In questo caso vale la pena di notare il coraggio di Panebianco, che persiste nel suo "ragionamento" a dispetto delle perplessità dei lettori e delle convinzioni del New York Times, ma soprattutto dagli indizi che nel frattempo erano emersi a carico della "sicurezza egiziana". Insomma dove c'è un "ragionamento" di un editorialista autorevole, indizi e testimonianze di giornalisti sul campo devono cedere il passo.

Sette (inserto del Corriere) 26 febbraio 2016.

Sia Panebianco sia Volli che Capuozzo sembrano dare per scontato che in Egitto i Fratelli Musulmani abbiano ancora una specie di controllo del territorio simile a quello che la criminalità organizzata ha in certi quartieri italiani. Sembrano insomma ignorare la repressione degli ultimi due anni - 1200 condanne a morte soltanto nel 2014, tra cui la "Guida generale", Mohammed Badi'; ventimila arresti. Ciononostante per Panebianco gli islamisti penetrano ancora "nei diversi gangli della società". "Non è difficile ipotizzare che qualche infiltrazione ci sia stata anche negli apparati della sicurezza. Sarebbe strano, anzi, che ciò non fosse avvenuto".
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Cosa pretendiamo da Israele

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Banksy?
"Fuori dalla realtà". A sentire Gideon Levy gli israeliani che hanno rivotato per il Likud sarebbero vittima di un lavaggio del cervello collettivo. "Se Netanyahu è il prossimo primo ministro, allora Israele non ha divorziato soltanto col processo di pace, ma col mondo". Che Israele non la pensi come buona parte del "mondo" non è per la verità una gran sorpresa. Nemmeno la vittoria di Netanyahu lo è, non fosse per i sondaggi che hanno movimentato un po' gli ultimi giorni di campagna. Forse esiste un fattore timidezza anche tra gli elettori del Likud, molti dei quali fino alle scorse elezioni avevano preferito scegliere altri partiti più a destra.

Il pezzo di Levy sembra pensato per lenire la delusione degli osservatori esterni, che continuano a non capire dove Netanyahu voglia portare la sue gente. Niente Stato palestinese, nessuna trattativa con l'Iran finché c'è Obama alla Casa Bianca, nessuna concessione, nessuna novità. Tutto questo a Levy e a tanti suoi lettori sembra fuori dalla realtà, eppure fin qui bisognerebbe riconoscere che ha funzionato. È vero, ogni tanto scoppia una guerra a bassa intensità; è vero, molte risorse si spendono in sicurezza, e il costo della vita ne risente. È vero, visti da una certa distanza gli israeliani (e i palestinesi) sembrano bloccati in uno stallo senza uscita. Ma che altro dovrebbero fare a questo punto? Cosa pretendiamo da loro?

Magari li avremmo voluti anche noi più ragionevoli. Ci sarebbe piaciuto che la formazione di sinistra vincesse le elezioni - come se il film non l'avessimo già visto. Abbiamo letto che Herzog era a favore di un processo di pace e tanto ci bastava. Due popoli e due Stati? Ma certo. Un negoziato a tre con Abu Mazen e Obama? anche subito.

E gli insediamenti in Cisgiordania? Ehm, vediamo.

Herzog: My settlement policy first and foremost is based on the famous [Clinton] parameters. I believe in the blocs. I definitely believe in Gush Etzion [a major settlement bloc just outside Jerusalem] being part of Israel. It's essential for its security.
Goldberg: When the U.S. administration tells you to stop building in Gush Etzion—
Herzog: Wait, wait, I haven't finished.
Goldberg: No, no, no, I want to get this in. When the U.S. administration tells you, no building in Gush Etzion, and you're prime minister, what do you say?
Herzog: It will be a mistake that you go in with all these - (continua qui)

http://www.mideastweb.org/palestineisraeloslo.htm
Come se non ci fossimo già passati. Un Herzog primo ministro avrebbe senz'altro rallegrato i lettori di Gideon Levy, le cancellerie europee e la Casa Bianca; avrebbe dato un'occasione ad Abu Mazen di volare in qualche location esotica e sorridere in favore dei fotografi come il rappresentante legalmente eletto di un qualche popolo; dopodiché - ci siamo già passati - la trattativa si sarebbe rapidamente incarognita sui soliti punti. Ad Abu Mazen, Herzog avrebbe offerto la consueta arlecchinata, una Cisgiordania a brandelli circondata e bucherellata dagli insediamenti e dai posti di blocco. Abu Mazen avrebbe potuto persino accettare, ma Hamas no, e saremmo al punto di prima. Non si capisce perché le cose non dovrebbero andare così, e non credo che un elettore medio israeliano dovrebbe immaginarsi che vadano diversamente. Quindi perché non Netanyahu?

Lui non ci prova nemmeno più, a far la pace: di Palestina non vuol più sentir parlare. Non è più onesto, almeno? Si può nel 2015 continuare a parlare di Due Stati ma senza toccare gli insediamenti? Si può immaginare un processo di pace come se dall'altra parte ci fosse sempre una leadership palestinese ancora in grado di farla, questa pace? Come se Hamas non si fosse ulteriormente radicalizzata, come se Abu Mazen non avesse smesso di convocare elezioni, come se il treno dei Due Popoli Due Stati non fosse ripartito da un pezzo?

Sono italiano, non faccio testo. A molti miei compatrioti basta un attentato o l'arresto di due marò per perdere la brocca. Non posso permettermi di giudicare la tenuta psicologica di un popolo che vota a qualche centinaio di chilometri dal caos siriano e iracheno. Mi sembrava improbabile che la maggioranza degli israeliani in questa situazione fosse disponibile a ritirarsi da un territorio di vitale importanza strategica - a meno che non si fosse trattato del solito ritiro per finta che è stato offerto ai palestinesi fin qui.

Un errore che facciamo quasi tutti, quando parliamo di Israele e di Palestina, è isolarli in un piccolo mondo a parte - un mondo tutto sbagliato i cui abitanti dovrebbero finalmente trovare un modo per andare d'amore e d'accordo. Ma Israele non è un'isola; non prospera sotto una cupola di vetro o di acciaio. Lo chiamiamo conflitto israelo-palestinese come se da una parte ci fossero soltanto israeliani, e dall'altra soltanto palestinesi. Non è così, non è mai stato così - conflitti del genere di solito si risolvono in molto meno di sessant'anni. C'è una guerra molto più grande intorno, e se per adesso Israele non è la prima linea, non è nemmeno una retrovia. C'è chi dall'altra parte del mondo finanzia i coloni e i partiti; c'è chi da qualche parte nel Golfo ha ancora interesse a nutrire Hamas e altre formazioni che credono nel piccolo e frammentato Stato di Palestina ancora meno di quanto ci creda Herzog. Il torto più grande che facciamo agli israeliani (e ai palestinesi), è pensare che possano fare la pace da soli. Che possano anche soltanto desiderarla, bloccati come sono nell'occhio del ciclone di un conflitto mondiale a intensità nemmeno così bassa. Un giorno finirà - finisce tutto col tempo. Ma non saranno gli israeliani (e i palestinesi) a farla finire: non da soli, almeno. Da loro non possiamo pretenderlo.
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Troppi specchi in questo bar, andiamo via

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Ma siamo sempre stati così? Così incapaci di festeggiare semplicemente per il ritorno a casa di due giovani, così insofferenti per il coraggio che le ha trascinate nei guai, così meschini da voler fare i conti in tasca a chi all'occorrenza salverà anche noi? È difficile dire. Senz'altro sono successe cose, negli ultimi dieci anni, che ci hanno segnato. Può darsi che la crisi ci abbia indurito; di certo le guerre in medio oriente non sono più una nostra priorità - più una di quelle pendenze a cui non vorremmo mai pensare, che ogni tanto salta fuori irritando i nostri sensi di colpa.

Del resto, se anche fossimo stati altrettanto cinici dieci anni fa - quando furono rapite e poi liberate Simona Torretta e Simona Pari - non ci avremmo fatto così tanto caso. Non c'erano i social network ad amplificare le nostre reazioni più luride. Probabilmente qualche brutta chiacchiera da banco la sentivamo anche allora: ma quel che si diceva al bar, restava al bar. Adesso è diverso. Adesso un commentino di un balordo in calce a un pezzo del Giornale rimbalza su qualche sito specializzato in bufale finché non rimpalla sulla timeline del vicepresidente del Senato.

A che serve avere un blog da così tanti anni, se non a offrire qualche controprova, qualche capsula del tempo. Sull'argomento in archivio c'è un pezzo solo, abbastanza imbarazzante (quanto scrivevo male, dio mio). Tutto giocato sull'idea dell'"isteria" di media, governo e opposizione, che secondo il mio illuminato giudizio non sapevano gestire la crisi né comunicare nulla di sensato. Col senno del poi è tutto piuttosto discutibile (il governo in questione risolse la crisi con una certa efficienza, anche se nessuno dei suoi esponenti sembra andarne molto fiero oggi). Me la prendevo già coi giornali che titolavano qualunque cosa senza riscontri, con la nostra ansia di essere aggiornati ("noi che tra un tg e l'altro consultiamo il televideo", che tenerezza), con Berlusconi che non annullava una visita diplomatica, con Bertinotti che parlava in nome dell'opposizione quando avrebbe potuto anche tacere, con Gianni Letta che licenziava un comunicato costituito di un solo periodo sintattico di 113 parole. Basta. E per gli standard di allora ero uno che se la prendeva per un sacco di cose. Ma l'opinione pubblica? Niente. Non pervenuta. Parlavo di media, e non di lettori. Di governanti, e non dei loro elettori. Ero molto incazzato con chi aveva responsabilità - io non ne avevo. Urlavo dal basso all'alto. Non è una posizione molto elegante, ma per un blog è l'unica sensata.

E se fosse questa, la cosa che è maggiormente cambiata in questi dieci anni? Non la meschinità, non il cinismo, ma l'enorme specchio che Zuckerberg e colleghi ci hanno messo davanti. Tutti questi pareri di perfetti sconosciuti che rimbalzano qua e là - spesso ritagliati e riprodotti in screenshot come rappresentativi di chissà quale sentimento popolare - tutta questa merda non era ancora così facilmente disponibile. Bisognava andare a estrarla dai forum o dai blog (molti quotidiani non avevano ancora aperto lo scolo della fogna sotto ai loro articoli), una gran fatica. Quel che era al bar restava al bar. Era meglio? Era peggio? Era diverso.

Che ipocrita sarei a sostenere che lo specchio di Zuckerberg non mi fornisca mai dritte importanti. È come entrare in decine di bar tutti i giorni, e non m accorgo nemmeno di pagare la consumazione. Quel che pensa la gente mi interessa, mi ha sempre interessato, perché non dovrebbe interessarmi? C'è il problema che su facebook, come dovunque, la battuta trucida o l'opinione tagliata col coltello vinceranno sempre la gara di like contro i ragionamenti ponderati: c'è un sacco di gente intelligente e garbata al bancone, ma l'unica cosa che si sente distintamente è la gara di rutti là nell'angolo. Se l'obiettivo è perdere la fede nell'umanità, i social network si prestano davvero molto bene.

Continuerò a usarli, perché non saprei dove altro andare. Ma mi propongo, come misura di profilassi, di non prendermela mai coi perfetti sconosciuti, per quanto penose od offensive mi possano sembrare le loro opinioni. Continuerò per quel che posso a mirare in alto, con quella caratteristica immodestia che mi imbarazzerà tantissimo quando rileggerò questo pezzo nel 2025. Me la prenderò con chi ha il potere, e in teoria dovrebbe saperla più lunga, e in pratica ha più responsabilità per quello che dice o fa: coi giornalisti e politici. Con chi 'indirizza' le opinioni - per quanto sappia che non funziona esattamente così: che per ogni Sallusti ci sono migliaia di italiani che erano stronzi anche prima di mettersi a leggerlo; migliaia di stronzi con cui un Sallusti ha deciso lucidamente di sintonizzarsi. Questo però non scusa un Sallusti: io continuerò a prendermela con lui, e a salutare con gentilezza i suoi lettori che domani incontrerò al bar, perché in questo mondo ci devo pur vivere. Ci sarà sempre qualche idiota che la spara più grossa e non posso fare a pugni con tutti, per quanto ne dica il papa.
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Non è Israele; sei tu.

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"Ma la Siria? E l'Iraq? Non muoiono dei bambini anche là, da mesi? Perché non te n'è mai fregato nulla? Che cos'hanno di speciale quelli palestinesi? Cosa c'è di speciale nei bombardamenti di Israele per farti indignare come non ti hanno mai indignato le armi chimiche di Assad o le stragi in Egitto?"

Caro sostenitore di Israele che me lo domandi, su un blog o su un social network, un giorno sì e un giorno pure; e quando non lo chiedi a me lo stai domandando a qualcun altro che spaccia morticini siriani per palestinesi... io so che a nulla valgono le mie obiezioni: potrei dirti che non è vero che non m'è mai fregato nulla; non è vero che Assad non mi ha sconvolto e indignato. Anche se è vero che di Siria e di Iraq, e delle centinaia di altre crisi in giro per il mondo ho discusso di meno, litigato di meno. Ho un'attenzione selettiva? Probabilmente: e credo che ce l'abbiamo tutti. Ci sono mille motivi storici e culturali per cui un cittadino italiano di media cultura può sentirsi più vicino a Israele e alla Palestina che non a tanti altri Paesi che passano guai anche peggiori, vicini e lontani. E poi c'è un altro motivo, banalissimo: su internet si discute, si approfondisce, ma soprattutto si litiga.

Da che navigo in rete non mi è mai capitato di litigare con sostenitori di Assad o dell'ISIS. Non frequentiamo le stesse compagnie, non leggiamo gli stessi giornali, non seguiamo gli stessi opinionisti, insomma non abbiamo nulla da dirci. Nessuno mi ha mai taggato in una discussione sulle armi chimiche di Assad. Nessuno si è mai sentito in dovere di obiettare che sì, Assad è un genocida, però anche i suoi nemici... Nessuno ha mai tentato di spiegarmi quanto fossero giuste le rivendicazioni degli integralisti. E invece con Israele succede, puntualmente.

Tanta gente in buona e meno buona fede si sente in dovere di avvertirmi quotidianamente che sì, Israele ha i suoi difetti, ma Hamas è molto peggio (come se non lo sapessi). Qualcuno si sente in dovere di spiegarmi che sì, Hamas non riesce ad ammazzare nessuno, ma se fosse in grado farebbe un massacro (vero; però non ce la fa). Qualcuno deve continuamente ripubblicare la nuova versione del solito foglietto in cui gli israeliani sparano per difendere donne e bambini e invece i palestinesi li mettono in mezzo, come se non l'avessi visto migliaia di volte in vent'anni. Il tutto deve essere necessariamente condito con qualche sberleffo ("pacifinto", "sinistroide") e soprattutto quell'accusa di antisemitismo che ormai è una moneta di latta, tanto è inflazionata. Nel frattempo gli antisemiti veri minacciano e uccidono ebrei anche in Europa, e in rete c'è chi ogni tanto mi accusa allegramente di collaborare con loro. Per capirci: l'istigazione all'odio razziale qui da noi è un reato. Se davvero siete convinti che io stia diffondendo contenuti antisemiti, forse dovreste prendervi la responsabilità di denunciarmi alle autorità competenti. L'altra possibilità è ammettere che state, francamente, esagerando.

Caro lettore o interlocutore filo-israeliano: se davvero vuoi sapere qual è il motivo per cui discuto più di Israele che di Siria, più di Palestina che di Iraq, ebbene... il motivo sei proprio tu. (continua sull'Unita.it, H1t#240)

Sei tu che mi accusi di non capire (quando va bene), e di essere in combutta con degli assassini (quando sei un po’ più nervoso). Sei tu che mi inviti ad approfondire il problema, a studiarlo meglio, a cercare di esporre con più chiarezza le mie ragioni, onde evitare l’accusa di intelligenza con Hamas o la Jihad o direttamente con Hitler che controllerebbe il complotto antisemita da una base lunare. Sei tu che non lasci passare un giorno senza spiegare i motivi per cui Israele fa quello che fa, e non ti accorgi che in questo modo dai davvero l’impressione di avere bisogno tu per primo di ripeterteli ogni giorno, quei motivi. Se fossero motivi convincenti forse non ci sarebbe bisogno di tutto questo sforzo che, fin qui, non ha molto giovato alla tua causa.
Ora tu risponderai che anche i filopalestinesi si comportano così. Sì, qualcuno lo fa. E infatti ce n’è che non sopporto: ogni volta intervistano Vattimo sull’argomento ho l’istinto di impugnare un Uzi. E allora mettiamoci d’accordo almeno su questo: non c’è un altro conflitto che rovesci in rete tante quantità di cattiva fede, di foto false, di argomenti fallaci, da una parte o dall’altra. Temo che sia proprio questo ad attirarmi: non la sorte dei palestinesi o degli israeliani, che dalla nostra attenzione selettiva non hanno tratto finora molti benefici (anzi, forse la ribalta mondiale li ha danneggiati). Mi interessa il fatto che tutti mentano, che tutti si sbaglino, e che molti lo facciano volentieri, e di proposito. Mi interessano le leggende, e c’è chi ne fabbrica in continuazione. E a furia di sentirmele raccontare, e di cercare di smontarle, ho sviluppato una specie di competenza.
Molte cose probabilmente non le ho mai capite e forse non le capirò mai, ma è da anni ormai che ne sento parlare, che leggo, che discuto. Tutto quello che so l’ho imparato proprio mentre litigavo, on line e fuori. Certo, ci sono tante ragioni storiche e culturali per cui Gaza e Gerusalemme possono sembrarci più vicine di altre città martoriate del mondo. Ma forse non avrei mai davvero cominciato a interessarmi a Gaza o Gerusalemme se tanti anni fa, durante un’assemblea studentesca, un ragazzo vestito più o meno come me (jeans, camicia), non avesse preso la parola per accusare Arafat. Era un periodo abbastanza tranquillo, nessuno stava discutendo di Palestina, non era senz’altro all’ordine del giorno di quella precisa assemblea; e il ragazzo lesse un suo comunicato in cui spiegava che Arafat voleva sterminare gli ebrei. Tutti. Voleva riaprire i forni. Ecco, non ho più la minima idea di chi fosse quel ragazzo: probabilmente andò a studiare in un’altra città e ci perdemmo di vista.
Però ricordo perfettamente me che lo guardavo e pensavo: noi due non stiamo vivendo sullo stesso pianeta. Non avevo particolare simpatia per Arafat – non l’ho mai avuta, tutto sommato, ma questa storia che volesse riaprire Buchenwald, ecco, non l’avevo mai sentita. Si doveva essere aperto un portale interdimensionale, da qualche parte, e io o lui senza volere eravamo finiti in un mondo parallelo: forse ero io che senza saperlo quel mattino mi ero risvegliato in un universo in cui Yasser Arafat era un nazista genocida. Appena potei andai a controllare – no, non risultava. La storia era più o meno quella che ricordavo io: il leader dell’OLP era senz’altro responsabile della morte di molti nemici ebrei, ma questa cosa di riaprire i forni, insomma, era del tutto inedita. Dunque era quel ragazzo, vestito più o meno come me, a venire da un’altra dimensione. Avrei dovuto avvertirlo in qualche modo, e invece lo persi di vista. Forse si era richiuso il portale. Per qualche altro anno non ci pensai più.
Qualche anno dopo arrivò internet. Fu uno choc. Il varco interdimensionale si riaprì e cominciai a leggere di palestinesi nazisti. Era qualcosa che sfidava le mie certezze, che mi incuriosiva. A distanza di anni è ancora così. Perché non m’interesso anche della Siria, di Boko Haram, dei pirati somali? Perché sono un maledetto superficiale, probabilmente. Ma vi garantisco che se un gruppo di sostenitori della pirateria somala mi segnalasse ogni giorno delle notizie sull’umanità degli abbordatori, sulle giustezza delle loro rivendicazioni, sulla moralità dei loro abbordaggi, ecco, io resisterei qualche settimana, e poi comincerei ad interessarmene morbosamente.
“Hai paragonato Israele ai pirati somali, sei antisemita”.

(PS: questo pezzo si può commentare solo su facebook, sulla pagina dell'Unità o in fondo a questa. Vediamo come va).
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Israele ha vinto

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...sed victa Catoni. 

Piano piano ci stiamo arrivando: cominciamo re-interessarci di Gaza. Un po' in ritardo sulle nostre bacheche on line arrivano le solite dannate foto di bambini morti - magari non sono esattamente i bambini che stanno morendo stavolta; magari sono altri bambini di altre guerre, ma insomma, è l'orrore che conta. Però è vero che stavolta abbiamo avuto bisogno di più tempo del solito per carburare la nostra indignazione.

Parlo soprattutto di chi sta coi palestinesi; la controparte ha sempre riflessi più pavloviani. Però da noi è in minoranza: così che c'è stato un momento, durato fino quasi alla fine del mondiale di calcio, in cui davvero sembrava che stavolta gli israeliani avrebbero potuto occupare Gaza senza neanche passare su una prima pagina italiana. Si respira una disaffezione generale per una tragedia che una volta era La Tragedia, il punto focale di tutte le travagliate vicende del Medio Oriente e del mondo - e poi a un certo punto ha smesso di appassionarci. Quando è successo? Dopo Piombo Fuso, prima di piazza Tahrir. Perché è successo? Perché tanto sembra che non cambi mai nulla.

L'insofferenza per una stagione di stasi infinita la mette a verbale sul Post Christian Raimo ("La ripetitività della tragedia") : "Lo scandalo della tragedia lascia il passo, è terribile dirlo ma è innegabile, a una sensazione di ripetitività, di moto inerziale. Le analisi geopolitiche sono delle versioni aggiornate, sempre un po’ al peggio, delle analisi geopolitiche di un anno o cinque o dieci anni fa. Il conflitto israelo-palestinese è diventato una figura retorica che indica qualcosa di irrisolvibile e ricorsivo". Chi si ostina a discuterne dà a volte l'effettiva impressione di un reduce sotto choc che continua a fare gli stessi discorsi, a ricordare le stesse battaglie: Quarantotto, confini del '67, accordi di Oslo, eccetera.

Quel reduce a volte siamo anche noi - e forse il problema è tutto lì: perché chi segue la scena con un'attenzione più costante sa che quello che scrive Raimo è vero solo in apparenza: Gaza 2014 non è Piombo Fuso. Netanyahu non è Olmert, Abu Mazen non è più lo stesso Abu Mazen che aveva ottenuto una legittimazione popolare con le elezioni del 2005. Anche Hamas non è più la stessa Hamas. Dietro ai nomi sono cambiate davvero tantissime cose. Forse l'unica cosa che non è cambiata siamo noi, con le nostre idee sul conflitto israelo-palestinese ormai cristallizzate da più di un decennio, refrattarie a tutto quello che nel frattempo si è incaricato di smentirci.

Siamo peraltro in ottima compagnia, se persino John Kerry all'inizio dell'anno pensava di riproporre Due Popoli e Due Stati. Nel frattempo Israele continua a costruire colonie al centro di quello che dovrebbe essere lo Stato di Palestina; nel frattempo un Abu Mazen che non osa più convocare le elezioni riesce a trovare un accordo di governo con Hamas; ma anche Hamas è molto diversa da quella che conoscevamo. È un'organizzazione indebolita, che non può più contare sull'appoggio dei Fratelli Musulmani, passati dall'oggi al domani dal governo dell'Egitto alla clandestinità, e che fatica a contenere correnti più estremiste ed eterodirette.

Nel frattempo, soprattutto, l'intero Medio Oriente sta collassando; tra Siria e Iraq è nato un nuovo sedicente califfato che costituisce per Israele una minaccia meno apocalittica della fumosa atomica iraniana, ma più vicina e concreta: il che offre poi a Netanyahu l'occasione migliore per ridere in faccia a Kerry e a chiunque creda che gli israeliani siano mai intenzionati a ritirarsi davvero. Obama può lamentarsi e magari lo farà, ma quando dovrà scegliere tra Israele e uno Stato Islamico del Levante non potrà avere molti dubbi; quanto agli altri osservatori (Europa, Onu), ci aspettiamo tutti che brontolino, ma la loro impotenza è agli atti da decenni. Quindi?

Quindi Israele ha vinto. Ma non adesso: da molti anni. Forse dalla Seconda Intifada, se non da prima. Tutto quello che è successo poi, il piombo fuso e le cupole d'acciaio, fanno già parte della cruenta cerimonia trionfale. Israele ha vinto, nell'unico modo in cui poteva probabilmente vincere. Non riusciva a cacciare i palestinesi e non voleva sterminarli; non poteva assimilarli senza rischiare di essere assimilato; e allora li ha recintati, umiliando e stroncando sul nascere qualsiasi embrionale tentativo di formare una classe dirigente. Ogni vittoria ha un prezzo, e ogni tanto in effetti qualche israeliano muore per mano palestinese. Ne uccide più il traffico, ma quando succede l'IDF può dimostrare a tutti i bravi cittadini israeliani la sua forza morale e la sua potenza di fuoco. In modo davvero non dissimile gli Spartani dichiaravano ogni anno la guerra ai loro schiavi Iloti: quella era Sparta, questo è l'Israele di Netanyahu. A noi la cosa non piace e riteniamo che prima o poi debba cessare, in un modo o nell'altro; è un modo molto occidentale di ragionare. Essendo tutti ormai nati in tempo di pace, riteniamo che la guerra sia uno stato eccezionale; che debba finire prima o poi, e sarebbe meglio prima: basterebbe dare un'occhiata migliore ai libri di Storia per capire che l'eccezione siamo noi.

Gli israeliani non sono come noi; la nostra pace non è la loro priorità. Il futuro che lasciano ai loro figli è comunque promettente: chi 15 anni fa cresceva col terrore degli attacchi suicidi oggi può gustarsi i bombardamenti stagionali dell'IDF portandosi il divano in una posizione panoramica. Eppure basta qualche razzo alimentato a fertilizzante a sentirsi sotto assedio e pronti a giustificare qualsiasi bombardamento. Ragazzi e ragazze crescono bellicosi: saranno buoni soldati e maggiormente inclini a votare per la sicurezza e la disciplina. Ci sarà sempre, anche laggiù, una minoranza che non si rassegna; ma chi credeva che Israele avrebbe potuto diventare un'altra cosa ha avuto molto tempo per ricredersi: così chi con tanto ottimismo immaginava che i palestinesi avrebbero potuto resistere, di generazione sconfitta in generazione sconfitta, all'abbraccio del fanatismo islamico. Peraltro il loro ruolo di eterni sconfitti non deve troppo dispiacere anche a chi ancora li finanzia, mantenendoli in vita quanto basta perché possano infastidire il nemico a intervalli regolari. La Palestina non è che la casella di una scacchiera più complessa che non abbiamo mai compreso per intero.

In una parte di questa scacchiera Israele sembra proprio aver vinto. Ammetterlo non significa approvarlo; quel che sta bene agli dei non deve piacere per forza anche a noi. Abbiamo ancora un po' di spazio e di tempo per ribellarci alla cattiva fede di chi inverte bombardatori e bombardati, di chi scambia un razzo qassam per un attacco atomico, di chi lancia accuse di antisemitismo a vanvera, di chi paventa la fine di Israele faro-di-democrazia-nel-medio-oriente. Israele non è un faro; non è nemmeno il cane da guardia dell'occidente, come molti falsi amici pretenderebbero che fosse: è un piccolo Paese che ha militarizzato i suoi problemi esterni per risolvere i suoi problemi interni. Proprio perché funziona, proprio perché rischia di essere un modello esportabile, vale la pena di osservarlo, studiarlo, smontarlo. Senza quelle certezze prefabbricate che alla lunga, davvero, annoiano.
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L'imbarazzo dello spettatore occidentale

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Davanti alle immagini dell'Egitto, il nostro disagio di spettatori occidentali è un po' più imbarazzato del solito - anche se magari non siamo quelli così imprudenti da aver prenotato a Sharm. C'è che stavolta sentiamo che non sarà facile recitare la parte che ci piace di più, quella delle anime belle e solidali che piangono con le vittime e gridano vergogna, e poi magari per qualche mese indossano un nastro - per la Birmania era rosso, per l'Iran verde, per l'Egitto non ci sarà, perché c'è un limite persino all'ipocrisia. C'è che stavolta non ammazzano i nostri, mettiamola così. I 'nostri' hanno manifestato il mese scorso: vogliono un Egitto meno islamico e lo vogliamo sicuramente anche noi, siamo laici. Quelli che si prendono le mitragliate dagli elicotteri invece sono islamici, integralisti, magari anche terroristi, e soprattutto poveri. Se fossimo costretti a scegliere probabilmente sceglieremmo di stare dall'altra parte della mitragliatrice. Fortuna che invece ci basta cambiare canale.

Più di ogni altra cosa noi vorremmo sentirci buoni, e le immagini dal Cairo non ce lo consentono. Vorremmo stare dalla parte dei giusti, e non riusciamo bene a ritrovarla, è seccante. Qualche settimana fa avevamo deciso che stavamo con l'esercito, ma quelli (chi se lo sarebbe aspettato) hanno le armi e le usano. Di solito a questo punto parteggiamo per le vittime, ma sono un po' troppo velati e fanatici, irregimentati da un'organizzazione oscurantista che venerdì li ha adunati in piazza ben sapendo cosa poteva succedere, forse col proposito deliberato di stabilire un nuovo record di martirio di massa da esibire poi in mondovisione.

Forse adesso capiamo come devono essersi sentiti i nostri zii o padri liberali o democristiani quando Pinochet si mise a massacrare comunisti e sindacalisti in Cile: noi abbiamo delle idee, a volte le tiriamo fuori al bar, o sui blog, e per una coincidenza fastidiosa sono le stesse idee con cui si sta coprendo un generale mentre stermina i suoi compatrioti, da qualche altra parte del mondo fortunatamente abbastanza lontana per non sentire gli spari in diretta. Così va la Storia... (continua sull'Unita.it, H1t#194).

 Così va la Storia: noi occidentali la preferiremmo un po’ più pacifica – è veramente scandaloso che ci si scanni ancora per questioni del genere, eppure succede già a ridosso del nostro cortiletto europeo. Noi vorremmo che le elezioni democratiche premiassero sempre i partiti laici e progressisti, ma nei Paesi musulmani succede troppo spesso il contrario; vorremmo che la laicità fosse una bandiera del proletariato, e invece se ne appropriano gli eserciti (un secolo fa in Turchia, negli anni Novanta in Algeria, ieri e oggi in Egitto), mentre la povera gente preferisce farsi guidare dagli imam. Vorremmo che “sinistra” e “destra” avessero il senso che gli diamo in Europa da qualche decennio in qua, perché alla fine è l’unico che comprendiamo, e soprattutto è l’unico in cui riusciamo a trovare un senso morale: da una parte stanno i violenti, i cattivi, i prevaricatori, dall’altra noi. E invece anche stavolta ci ritroviamo i fanatici da una parte e gli stragisti di Stato dall’altra, non è giusto.
Gratta gratta, oltre a tutte le sovrastrutture e i paraventi, quello che ci spingeva ad autoconvocarci a piazza Tahrir (beninteso senza smuovere il sedere dalla postazione internet casalinga) era la cara vecchia solidarietà di classe. Quelli che due anni fa chiedevano più democrazia e meno Mubarak erano esponenti di un ceto medio urbano. Quelli li capivamo, indossavano le nostre stesse magliette e scarpe; gli slogan sui loro cartelloni, opportunamente tradotti, erano gli stessi che avremmo scritto noi. Questi invece che si fanno ammazzare in nome di Morsi e di Allah non li capiamo proprio, e il fatto che possano aver vinto libere elezioni democratiche è incidentale. Forse nel nedio oriente la Storia gira al contrario, o forse è un po’ in ritardo, impantanata tra Vandea e Termidoro: in quei momenti imbarazzanti in cui la borghesia tira giù la maschera, punta l’artiglieria su sanculotti e contadini, e rinnega certe idee estreme come il suffragio universale.
Nel 1976 in Argentina il generale Videla stimò che per “porre fine alla sovversione e all’opposizione politica” e “applicare il piano economico liberista” occorreva disfarsi rapidamente di almeno ottomila oppositori; non c’è che da augurarsi che i generali egiziani abbiano fatto calcoli meno drastici. Forse tra qualche anno l’Egitto sarà un Paese moderno, laico, un faro di progresso per il medio oriente: non vediamo l’ora. Fino a quel momento tocca voltare le spalle e turarsi le orecchie: tanto non è a noi che si chiede aiuto.http://leonardo.blogspot.com
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1980: Fuga dal pianeta dei barbuti

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 Argo (Ben Affleck, 2012)

Teheran, 1980; durante l'assalto all'ambasciata americana, sei diplomatici escono dalla porta di servizio e si nascondono all'ambasciata canadese. Per riportarli a casa l'agente CIA Tony Mendez escogita la copertura più assurda della storia dell'agenzia: si finge il produttore di un film di fantascienza, in cerca di location orientaleggianti. La beviamo? Il problema con Argo è un po' questo perché, come capita a molte storie vere, è abbastanza inverosimile. Girare un film di fantascienza a Teheran durante la crisi degli ostaggi, con le barbute Guardie della Rivoluzione in giro a caccia di occidentali? Eppure dicono che andò proprio così, le Guardie se la bevvero e non si accorsero che i sei accompagnatori dell'agente Mendez non erano registi fotografi e sceneggiatori, ma sei diplomatici in fuga.

La locandina finta (del 2012)
del film finto (del 1980)
Uno dei primi aspetti che colpisce di Argo è la precisione, ormai un po' stucchevole, con cui viene riprodotto il 1980: arredi, acconciature, musica (i Dire Straits), telefoni e così via. Tutto virato al beige ("erano anni marroni", come scriveva Jonathan Coe della seconda metà dei '70). Persino il logo all'inizio del film è quello stilizzato e minimale che la Warner usava a quei tempi. Bei tempi. Ti aspetti che da qualche corridoio spunti Robert Redford, invece ti devi arrangiare con Ben Affleck, e il bello è che dopo un po' ti accorgi che si può fare.

Argo è tornato nelle sale sull'onda lunga degli Oscar: ne ha vinti tre (miglior film, montaggio e sceneggiatura non originale) su sette nomination. Affleck però non ha ottenuto la nomination per la miglior regia, il che ha fatto molto discutere, perché al terzo film la sua sicurezza e versatilità dietro la macchina da presa non sono più una sorpresa per nessuno. Lui ci ha scherzato su, facendo notare che non l'avevano nemmeno nominato tra i migliori attori. In realtà Affleck Attore non sarà Redford ma non è il cane che tutti pensano (nelle sue teche c'è pure una Coppa Volpi, butta via); paradossalmente il viso belloccio non l'ha aiutato a essere preso sul serio, specie dopo che lo abbiamo associato a un certo tipo di film (Armageddon, Pearl Harbour) terribili. In Argo trova il ruolo ideale: un flemmatico agente a cui nessuno domanda di manifestare le proprie emozioni. Al massimo se ha qualche dubbio o imbarazzo prende in mano una bottiglia di whisky, che è una specie di sigaro-di-Clint-Eastwood: e a un certo punto abbiamo questa scena, Affleck-Mendez solo in una stanza con i suoi dubbi e una bottiglia, che prende in mano e rimette giù, e poi riprende e poi rimette giù. Pensatela come volete ma io ci ho riconosciuto qualcuno, c'è gente che veglia intorno ai suoi problemi in questo modo.


Una locandina finta del 2012
del film vero del 2012.
Tutta un'altra cosa rispetto all'altra agente CIA che abbiamo visto all'opera di recente, la Maya di Zero Dark Thirty (continua su +eventi!) coi suoi muscoli facciali tesi allo spasimo mentre tormenta i superiori. Impossibile non confrontare i due film, diversissimi anche se condividono alcune maestranze (il compositore della colonna sonora; il montatore che si è ritrovato in lizza per l'Oscar con due nomination nella stessa categoria). Per fare un esempio, in entrambi i film a un certo punto c'è un furgone pieno di americani circondato da indigeni ostili. In Zero è un enorme hummer dotato di cecchino in assetto di guerra che gira per i bazar di Islamabad cercando di intercettare una telefonata di Al Qaeda e nessuno ci fa caso, compreso il membro di Al Qaeda: mentre guardi non sai che pensare. È un'ingenuità dello sceneggiatore o dei servizi, o degli americani in genere che vanno in giro in hummer e credono che nessuno li noti? In Argo c'è uno scassato pulmino della Volkswagen che si ritrova in mezzo a due manifestazioni antiamericane, e dentro nessuno è armato, hanno tutti una paura fottuta e ce l'hai anche tu: il rumore più brutto del mondo sono i pugni nudi contro la lamiera di un pulmino Volkswagen. Mi ha tenuto col fiato sospeso molto di più di tutta la sequenza di Zero (professionale, impeccabile) in cui ammazzano Bin Laden. In Zero a un certo punto rischi di tifare per gli integralisti: in Argo sei subito dalla parte dei prigionieri americani, che non sono nemmeno così simpatici. Ma non importa, è un Caper movie, un "colpo grosso": c'è una truffa da mettere in piede ed eseguire, e alla fine vuoi soltanto che tutto vada per il meglio.
Poster vero (2012) del film vero (2012).

La squadra messa in piedi da Mendez, con un produttore ignorante e sboccato e il truccatore del Pianeta delle scimmie (John Goodman, gli vuoi subito bene) assomiglia più a una gang di soliti ignoti che a una cellula della CIA. Allo stesso tempo, è anche un film meno manicheo di Zero, probabilmente per l'impostazione un po' liberal, da nuova Hollywood, dei produttori (c'è anche George Clooney): il film chiarisce subito, nel preambolo, che prima dei cattivoni barbuti c'era un figlio di puttana sostenuto da Washington, Reza Pahlevi. Lo ribadiscono ogni tanto lungo il film gli agenti della Cia, molto più cinici e umani dei gelidi quadri di Zero. Nonostante questo il film è stato criticato per il modo in cui descrive tutti gli iraniani come fanatici barbuti. Eppure pare che in Iran vada fortissimo, non solo al mercato clandestino dei DVD: lo proiettano nei cinema di nascosto. Del resto se avete almeno visto Persepolis (scritto e disegnato da una testimone diretta) l'onnipresenza minacciosa delle Guardie della Rivoluzione non vi stupirà più di tanto. Senza dubbio il film calca la mano, si inventa un quasi-linciaggio al Bazar che non c'è mai stato: ma che una finta troupe canadese potesse essere circondata da iraniani incattiviti, non guardie della rivoluzione, ma parenti di vittime delle torture di Pahlevi, non è così inverosimile.


Eppure non è vero: e sostituire il verosimile al vero è un'operazione delicata. Argo e Zero hanno questo in comune: romanzano un eclatante fatto della Storia recente, mantenendo però un registro così realistico che rischiano di sostituirsi alla Storia, più che descriverla. Per esempio: Argo trasforma un'operazione in gran parte congegnata dall'intelligence canadese in una missione CIA, che poi sembra quasi l'iniziativa di un agente solitario, Mendez: non è andata affatto così. Anche gli inglesi ci fanno un'immeritata brutta figura (non è vero che respinsero i sei fuggitivi, se li passarono ai canadesi fu perché ritenevano la loro ambasciata più sicura). Il colpo di scena che movimenta l'ultima mezz'ora è del tutto inventato, l'operazione filò molto più liscia e non ci fu nessun inseguimento all'aeroporto. Dove il film si tradisce è probabilmente nella sua ossessione per la simultaneità, poco plausibile nel 1980. Per dire, ci sono televisori dappertutto, in cucina, in bagno, dappertutto: sono scatoloni ingombranti, ma stanno dove oggi starebbero tablet e notebook. Affleck e compagnia fanno il possibile per recuperare il sapore analogico dei file cartacei, delle telefonate criptate, ecc.; ma a un certo punto vogliono farci credere che bastassero pochi secondi da Washington per prenotare un aereo a Teheran: faccia refresh, dice Mendez all'addetta all'imbarco, vedrà che la prenotazione c'è. Un refresh nel 1980. In realtà i biglietti li avevano comprati i canadesi, molto per tempo (bellissima l'immagine dei bambini iraniani che ricompongono i documenti tritati in ambasciata, strisciolina dopo strisciolina: hacker analogici, l'immagine del mondo non è ancora stata convertita in pixel ma ormai i tempi sono maturi).

Poster vero (1980) del film finto (1980).
Argo è un film del 2012, non un documentario del 1980, ma allora perché insiste per sembrare così vero, così documentario? È un sogno, ed è un film sui sogni: anche nel più barbuto fanatico c'è la voglia di vedere un'astronave che decolla e se ne va, anche nella più chiusa teocrazia ci sarà sempre una porta aperta dalla fantasia del bambino che guarda le stelle e cerca gli Ufo. Però è un sogno che maneggia immagini pesanti e delicate: anche l'ayatollah Khomeini all'inizio del film è un fumetto, un bozzetto di scena. È una bella idea quando la rivedi: è come se il film ti volesse dire attento, anche i cattivi barbuti non sono veri, sono solo cattivi da film. Peccato che la sigla finale ti dica proprio il contrario, accostando foto originali del 1980 e dintorni a inquadrature del film: quindi è vero, impiccavano gli oppositori alle autogrù; quindi è vero, la gigantesca scritta "Hollywood" era a pezzi (no, non è vero, l'avevano appena riparata); quindi è vero, insomma, è tutto vero. No, non è tutto vero. Ma ci somiglia molto. Forse troppo.

Argo è in programmazione al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (ore 20.00 e 22.30) e al Cinecittà di Savigliano (ore 22.30). Buona visione.
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Il Paese più strano del mondo

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Ieri pomeriggio, mentre leggevo qualche pezzo sui bombardamenti tra Gaza e Israele, ho fatto una cosa che di solito preferisco evitare. Ho controllato quanta gente stesse morendo, in quelle stesse ore, qualche centinaio di chilometri più a nord, in Siria. Mi sono bastati pochi secondi per scoprirlo: 101 vittime nella giornata di ieri, tra cui sei bambini. Non so se qualche telegiornale ne abbia parlato. Non credo che nessuno vi abbia sottoposto via facebook le eventuali immagini delle vittime straziate dai bombardamenti. E tuttavia anche quelli sono bombardamenti, anche quelle sono vittime, e la Siria non è in nessun modo più lontana a noi della Striscia di Gaza. In realtà non avevamo bisogno dei fatti tragici di questi giorni per renderci conto che Israele e Palestina ci interessano di più, ci hanno sempre interessato di più di qualsiasi conflitto regionale. Resta comunque lo stupore, che forse vale la pena di coltivare: Damasco e Gerusalemme distano quanto Milano e Bologna. In poco più di duecento chilometri si combattono due guerre: una richiama fotografi e giornalisti da tutto il mondo, l'altra non se la fila nessuno. Perché?

Ci sono tanti motivi. Alcuni perfino comprensibili. L'inerzia, tanto per cominciare: le guerre vanno e vengono, ma i bombardamenti tra Gaza e Israele sono da troppo tempo, ormai, un appuntamento fisso. È una storia che conosciamo già, o almeno crediamo di conoscere; gli attori in campo sono vecchie conoscenze, Hamas e Likud parole entrate nel nostro vocabolario dieci o vent'anni fa che ormai non abbiamo più paura a usare, anche a sproposito; viceversa quel che accade in Siria è il classico esempio di matassa geopolitica che diventerà chiara solo quando si sbroglierà in un senso o nell'altro, e nel frattempo non vogliamo farci fregare. Magari ci scotta un po' la fiducia che abbiamo riposto nelle primavere arabe di un anno fa. In fondo siamo occidentali, tendiamo a identificarci e a empatizzare con una classe media che in queste dittature medio-orientali non necessariamente c'è, e anche quando c'è (in Egitto o in Tunisia) e tenta di contribuire alla rivoluzione, si ritrova presto o tardi a fare il vaso di coccio tra esercito e fondamentalismo islamico. Israele è diverso (continua sull'Unita.it, H1t#154).

Israele sembra davvero più vicino, per cultura più che per geografia. È una democrazia, come i suoi difensori non si stancano di ripetere; una potenza industriale; la sua storia è intrecciata con quella europea, dalla quale del resto le nostre discussioni faticano a districarsi, per cui si può prevedere con precisione quasi statistica che qualcuno tirerà fuori nazismo e shoah a sproposito (stavolta Odifreddi, ma poteva essere chiunque, è un riflesso automatico). Eppure anni di infiniti battibecchi mediatici dovrebbero averci insegnato, se non altro, che paragonare israeliani e nazisti è sempre un suicidio retorico: oltre a essere una chiave di lettura piuttosto banale e brutale (i nipoti degli oppressi che diventano oppressori, ecc.) è soprattutto fuorviante, visto che Israele non sta sterminando i palestinesi. Il che non toglie che quello che sta facendo non possa essere considerato profondamente ingiusto, ma appunto: cosa sta facendo? Lo stillicidio con cui si porta avanti il conflitto è in realtà qualcosa di profondamente nuovo, che non ha precedenti nel Novecento. Non lo capiremo finché continueremo a discutere di ghetti o lager, più per mancanza di fantasia (e necessità, forse, di rifarci a un assoluto morale).
Potrà sembrare strano ai cacciatori di antisemitismo in servizio permanente, ma uno dei motivi per cui Israele ci interessa di più, è che in Israele in qualche modo abbiamo creduto di poterci identificare, proiettando sugli israeliani sensi di colpa che poi non si capisce davvero perché avrebbero dovuto condividere. Ma siamo occidentali, è più forte di noi: in quel piccolo Paese c’è una classe media, che dai film e dai romanzi non sembrava troppo diversa dalla nostra. Israele ci sembrava percorso e minacciato da ideologie e sentimenti che riteniamo familiari: nazionalismo, antisemitismo, fondamentalismo religioso, islamofobia. Tutte queste cose crediamo di riconoscerle, e ci danno una sensazione di familiarità che forse è semplicemente sbagliata. Forse dovremmo semplicemente accettare, dopo più di un mezzo secolo di conflitti e occupazione militare, che gli israeliani non sono come noi. Hanno vissuto guerre molto diverse dalle nostre, in condizioni veramente peculiari. Una potenza nucleare grande quanto una regione italiana, una sottile striscia di terra minacciata da altre strisce altrettanto sottili (e dall’Iran), forse è qualcosa di ancora più alieno della Siria. Questo non significa che non debba interessarci, ma non c’è motivo per considerarlo più vicino di altri conflitti, che ci sembrano lontani e non lo sono.
Forse ci servirebbero occhi nuovi, per smettere di guardare al conflitto israelo-palestinese come all’ultima guerra coloniale (o addirittura all’ultima delle crociate). Basterebbe poco, magari constatare che l’unico vero sconfitto in questi anni è stato qualsiasi progetto alternativo allo status quo: come se occorresse bombardare un po’ tutto, ogni quattro anni, affinché nulla cambi davvero. Potrebbe anche essere l’esempio di un nuovo tipo di guerra di bassa intensità, tra società economicamente progredite e sacche di sottosviluppo, funzionali alla conservazione del potere da una parte e dall’altra della barricata. Un modello di guerra radicalmente nuovo, radicalmente diverso da quelle che siamo soliti descrivere (anche quando descriviamo la Palestina) ma che, via via che la distanza tra ricchi e poveri della terra si accorcia, si potrebbe persino esportare. http://leonardo.blogspot.com


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Striscia, il futuro

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La verità è che siamo pigri. Non è nemmeno colpa nostra. Siamo cresciuti in un mondo in espansione, tutto stava andando per il meglio e nessuno sentiva l'esigenza di frustarci se sbagliavamo le coniugazioni. L'importante era essere felici, trovare la nostra strada, la nostra creatività, e poi c'era posto per tutti e saremmo tutti diventati artisti scienziati ballerini in tv. Così siamo cresciuti effettivamente molto espansivi e pieni di idee, di intuizioni e altre cazzatine, ma come dire, ci manca un po' il mordente.

Anche quando arrivò la globalizzazione, i nostri genitori non si spaventarono più di tanto, all'inizio la consideravano soprattutto come una globalizzazione di manovali colf badanti e puttane, tutti mestieri che intendevano evitare ai figli, e tanto meglio se il prezzo di quel tipo di prestazioni crollava. Che dall'altra parte del mondo ci fosse gente disposta a sanguinare nelle fabbriche e sui libri per fotterci la competitività; che dall'altra parte del mondo ci fosse un altro mondo intero più giovane e disposto a tutto; che nel 2012 persino gli operatori dei call center cominciassero a tradire un accento bengalese: questo proprio non lo potevano immaginare, e invece.

Ora vallo a spiegare alla Seconda Erre, che se non imparano sul serio gli irregolari della seconda coniugazione, da qualche parte del delta del Gange c'è un tizio in uno scantinato che li sta studiando meglio di loro, e che tra dieci anni gli fregherà il telelavoro. È un discorso che non capiscono, anche perché per farglielo è inevitabile usare qualche irregolare della seconda coniugazione. Sono piccoli, non pensano al futuro, o meglio ci pensano perché fanno tanti disegnini, sono tutti piccoli Matt Groening che a scuola disegnava solo coniglietti e poi ha inventato i Simpson ed è diventato ricco e questo è un grosso argomento contro il divieto di fare disegnini in classe. Quanto a reintrodurre il frustino, il consiglio d'istituto non capirebbe. Quindi che si fa.

Una volta si facevano le guerre, più o meno una generazione sì una no aveva la sua bella guerra, bella per modo di dire, in realtà quasi sempre orrenda: una generazione la faceva, quella successiva se la faceva raccontare, e per quaranta cinquant'anni avevi risolto un po' di problemi occupazionali, formativi, per tacere delle enormi opportunità industriali e urbanistiche. Non è mica un deficiente l'essere umano, parlo in generale: se ha sempre fatto delle guerre si vede che ci si trovava bene. Meglio che i lemming con quella storia delle estinzioni di massa, che tra parentesi è una leggenda urbana. Ma a un certo punto questa cosa di fare guerre sempre più tecnologicamente avanzate ci è un po' scappata di mano, sono state scoperte reazioni a catena che potrebbero estinguere la specie, così adesso almeno in Europa non si può più, e te ne accorgi dalla gioventù che dopo sessant'anni ti ritrovi tra i piedi. Per carità quasi tutti simpatici, e poi che bei denti, e che guance paffute, quanti progressi nell'alimentazione e nell'igiene. Soltanto un po', come dire, smidollati. Ma non è mica colpa nostra. Cosa ne sapevamo.

Tutto questo per dire che se siete venuti qua cercando un un pezzo che stigmatizzasse gli scontri nelle manifestazioni, le guerriglie più o meno giovanili, ormai rituali, sganciate da qualsiasi percorso di causa-effetto... ripassate magari tra qualche anno, non sono ancora così rincoglionito (anche se prometto bene). Mi dispiace certo che vada a finire sempre così, ma questo istinto a giocare alla guerra lo capisco. È evidente che in Italia - ma in Europa in generale - è sfruttato ancora male, canalizzato in eventi calcistici o sindacali che in fondo non c'entrano nulla. Altrove hanno capito come fare, altrove sono stati più furbi. Forse è genetica, ma secondo me è soprattutto necessità.

E allora forse dovremmo smetterla di chiedere la pace in Medio Oriente come se noi avessimo qualcosa da insegnare al Medio Oriente - quando forse a questo punto è il contrario: è il Medio Oriente che ci mostra la via, è il litigioso Medio Oriente il futuro dell'Europa e magari, dai, del mondo. Forse nel futuro avremo tutti diritto a una nostra Striscia di Gaza a quaranta-cinquanta km dalle nostre case: un recinto pieno di uomini cattivi che ci tirano i razzi e ci distruggono pollai o asili nido. Lo si alleva con molta attenzione, isolandolo il più possibile da qualsiasi contatto con la realtà, e poi ogni quattro anni si organizza una guerra, ma mica una cosa tragica stile Novecento, una cosa molto più tranquilla, una spedizione punitiva, si va nel pollaio e si rompono le uova, e arrivederci al prossimo bisestile: olimpiadi, elezioni americane, bombardamento nella striscia. Tenersi una Striscia sotto casa presenta tutta una serie di vantaggi da non sottovalutare: certo, sporca un po', ma è relativamente piccola, e soprattutto, per quanto sia cattiva, alla fine vinci sempre tu (vincere è importante). E ai giovani altro che SCO, ai giovani puoi far fare il servizio militare come ai vecchi tempi, e vedrai che anche la scuola la prenderanno meno sottogamba, coi cattivoni alle porte di casa. Studiate ragazzi, e studiate cose utili, e studiatele sul serio. Non vorrete mica diventare la Striscia di qualcun altro?
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Quel che non si può più dire, tanto ormai

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Intorno alla poesia di Günter Grass il dibattito mondiale si è inviluppato in una specie di ciclone. Si discute animatamente sui trascorsi nazisti di Günter Grass, sull'antisemitismo vero e presunto di Grass, sui meriti e sulle responsabilità di Grass, sulle reazioni più o meno razionali dei politici e dei letterati israeliani all'intervento di Grass, sull'opportunità di ritirare il premio Nobel a Grass, insomma si parla di tutto... meno che del contenuto della poesia di Grass. Come se di tutto il dibattito il testo che lo ha scatenato fosse l'oggetto meno interessante. Se ne sta nell'occhio del ciclone e non lo legge più nessuno. Peraltro almeno qui da noi c'è un problema di traduzione, che rende i ragionamenti di Grass più arzigogolati di quanto probabilmente non suonino in originale. Detto questo, non è escluso che una reazione del genere sia esattamente quello che Grass si aspettava. La stessa poesia sembra fatta apposta per stimolare un dibattito centrifugo: la maggior parte dei lettori (sempre più distratti, su internet soprattutto) perde l'attenzione molto prima di arrivare al nocciolo di quel che Grass ritene "debba esser detto": e in effetti sul finale Grass ha in mente una proposta concreta, ma non è di quella che si discute in giro. Si discute dei trascorsi di Grass diciassettenne nelle SS. Sul fatto che Israele lo dichiari persona non grata, tra l'altro in base a una legge che permette di impedire l'ingresso a chi abbia aderito al nazismo (la stessa norma si potrebbe applicare anche a papa Ratzinger, coi suoi trascorsi nella Gioventù Hitleriana?) Insomma tutto il dibattito di questi giorni ruota intorno a un gigantesco argumentum ad hominem: non si discute più di tanto delle idee di Grass, ma del fatto che sia Grass ad averle. Per molti israeliani, ma persino per i socialdemocratici tedeschi, sarebbe meglio che non le avesse: non su questo argomento.

Che l'opinione pubblica israeliana possa nutrire diffidenza per un intellettuale che ha impiegato mezzo secolo a riconoscere i suoi trascorsi nazisti, mi sembra del tutto comprensibile. (Continua sull'Unità, H1t#122).

Che Netanyahu possa speculare su questa diffidenza durante una campagna elettorale in fondo ci sta, e non è certo la cosa più criticabile che ha fatto in questi anni Netanyahu. Magari qui in Italia se ne potrebbe parlare con più calma, visto che non siamo in campagna elettorale e Ahmadinejad non minaccia di toglierci dalla cartina. Scopriremmo così che quel che propone Grass non ha veramente nulla di nuovo o eccezionale: sono le normali richieste che potrebbe fare un intellettuale socialdemocratico, se avesse ancora voglia di parlare di queste cose, appunto. La Germania, secondo Grass, non dovrebbe fornire un sommergibile di ultima generazione a Israele, che potrebbe impiegarlo per un attacco missilistico all’Iran. Più in generale, nella penultima strofa Grass propone che gli impianti nucleari israeliani e iraniani siano messi sotto il controllo di un ente internazionale. Nulla di sconvolgente: esiste un trattato di non proliferazione nucleare, e Israele non l’ha sottoscritto. Per Grass evidentemente dovrebbe farlo (per voi no?), e consentire che la controversia con l’Iran sia affidata ad un’autorità sopra le parti. La soluzione proposta può apparire un po’ irrealistica, specie dopo che l’11 settembre ha messo in crisi una certa idea di multilateralismo; ma è antisemita? Non mi pare, non lo so, ma se lo dice uno che era antisemita a 17 anni forse sì.
Viene il dubbio che Grass lo abbia fatto apposta, che anche a lui più che la proliferazione nucleare interessi la reazione prevista e prevedibile a quel che scrive. Nei primi versi si vedono i bagliori dell’antica fiamma dell’intellettuale engagé, quello del J’accuse, dell’”Io so”, quello che non sa trattenersi di fronte al passaggio dell’imperatore nudo, certe cose sono evidenti, devono essere dette e pazienza se poi la folla lo lincerà. Poi però il ritmo rallenta, assume un andamento sornione: l’autore se la prende comoda, si domanda perché scrive quel che sta scrivendo, perché ha aspettato tanto a scriverlo, ne approfitta per rammentare le sue colpe indelebili… e intanto sa benissimo che il rilevatore di antisemitismo di molti lettori sta già ticchettando intensamente. Sia loro che i loro avversari si attendono un’invettiva finale che non arriva, anzi le proposte finali sono piuttosto modeste. Una poesia-trabocchetto che magari non aiuta a risolvere la questione israelo-iraniana, ma che ci mostra come funziona oggi la battaglia delle idee.
Non funziona. Perlomeno su Israele, non c’è più nessun vero dibattito, non c’è nessuno scambio di idee, ammesso che le idee ancora ci siano. O Israele è un criminale, o chi lo critica è antisemita, in mezzo non c’è nessuna opinione pubblica da conquistare, l’opinione pubblica si è annoiata e parla d’altro. L’arma non convenzionale in questo caso non è l’ordigno nucleare, ma appunto l’argomentum ad hominem: chiunque parla di Israele o è un agente della propaganda ebraica o è un antisemita: anche se non scrive cose antisemite di sicuro le ha scritte da giovane, oppure le avrà scritte un suo amico o suo nonno. Prendi un blog, per esempio: puoi usarlo per parlare di qualsiasi cosa, ma se ti metti a discutere di Israele, e di Palestina, e di Iran, sai che si fermeranno a commentare soltanto i troll. Sono argomenti interessanti, e drammatici, e attuali; e non c’è nessun motivo al mondo per cui la minaccia di un conflitto atomico a poche migliaia di chilometri di distanza non dovrebbe farci discutere, tirandoci fuori anche la rabbia, la paura, la partigianeria quando c’è. È vero che discutere non risolve, ma sarebbe pur sempre un segno che siamo reattivi, che sappiamo che c’è un problema, e ne discutiamo. Invece no, non ne discutiamo più: ogni fazione conta i suoi morti e li rinfaccia agli avversari; nei momenti in cui morti per fortuna non ce ne sono, si strologa su sciocchezze come le dimensioni del naso di Fiamma Nirenstein. Del resto ormai si sa, scambiare opinioni con quelli che la pensano come noi è inutile, con quelli che la pensano diversa è frustrante.
Forse Grass voleva semplicemente farcelo notare. (Poi, certo, vendere sommergibili a una nazione che non ha firmato il trattato di non proliferazione non mi sembra il massimo, ma forse sono antisemita io, o lo ero in una vita precedente). http://leonardo.blogspot.com
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Scherzando col Magog sbagliato

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10 aprile - Sant'Ezechiele, profeta (620-550 aC circa).

[Il prezzo si legge intero e ampliato qui] Si parlava di Maya. A me non fanno nessuna impressione. Invece, sapete cos'è che mi dà qualche brivido? Il profeta Ezechiele. C'è poco da scherzare. Stiamo parlando di uno degli scrittori più influenti della storia. Ebrei, musulmani e cristiani di tutte le confessioni lo venerano come uomo di Dio; persino gli ufologi lo apprezzano molto per quella pagina in cui si ritrova al cospetto della gloria divina su una specie di carro alato che è la cosa più simile a un'astronave aliena che sia possibile trovare nella Bibbia; non solo, ma persino il processo di pace in Medio Oriente (e quindi nel mondo intero) dipende non in minima parte dall'interpretazione di alcuni suoi versetti oscuri - non sto scherzando, e non è il solito complotto rettiliano, è tutto alla luce del sole purtroppo.

È curioso, ma non del tutto inappropriato, che a tanta fama Ezechiele sia arrivato senza essere un grande scrittore: lo schiaccia soprattutto il confronto con gli altri due profeti maggiori della Bibbia, Isaia e Geremia, che lo precedono nel canone biblico. A Ezechiele manca l'afflato lirico del primo, e il pathos rancoroso del secondo; ma forse è proprio per compensare le sue carenze stilistiche che è costretto lavorare con gli effetti speciali, inventando un nuovo stile visionario e teatrale a base di mostri, oggetti volanti, battaglie titaniche, morti che risuscitano... già qualche esegeta ebreo storceva il naso, considerandolo un contadino al cospetto del nobile Isaia, eppure le sue allucinazioni avranno un enorme successo. Postumo, ovviamente, perché i grandi profeti biblici in vita sono quasi sempre inascoltati e sbeffeggiati. Nemmeno l'aver azzeccato la caduta di Gerusalemme e la deportazione nella Babilonia di Nabucodonosor II gli guadagnerà la stima dei contemporanei. Con Ezechiele però comincia la letteratura apocalittica, quella che descrive un futuro imminente o remoto a base di visioni allegoriche e oscure. Alle sue macchine volanti e alle sue battaglie finali si ispireranno gli autori del Libro di Daniele e dell'Apocalisse di San Giovanni. Ma il contributo di Ezechiele alla storia del mondo non si conclude certo lì.

Siamo nei primi mesi del 2003. L'invasione angloamericana dell'Iraq è ormai data per certa: si tratta soltanto di definire i dettagli, capire chi abbia voglia di dare una mano (Berlusconi, in quel momento, pochissima). Jacques Chirac è all'Eliseo che sbriga le sue faccende quando gli passano il telefono più importante che hanno, non so se all'Eliseo ci siano i telefoni colorati come una volta alla Casa Bianca, ma è un dettaglio che ci possiamo anche inventare e non farà sembrare la storia meno verosimile. Insomma, dall'altra parte del filo c'è George W. Bush. Chirac quando prende in mano la cornetta si immagina già cosa il tizio più potente del mondo vorrebbe da lui: l'appoggio francese alla Coalizione dei Volenterosi. E tuttavia Bush riesce ugualmente a sorprenderlo. Le Président non riesce a capire di cosa stia parlando: non è un problema linguistico, c'è senz'altro un interprete in mezzo, ma i ragionamenti di Bush sono talmente sconnessi che farfuglia anche l'interprete. Ci sono due tizi, Gog e Magog, operativi in Medio Oriente... una profezia biblica si sta per compiere e una nuova era sta per giungere, et toute cette sorte de conneries. Chirac si mantiene sul vago, le faremo sapere, e poi chiama il suo staff: si può sapere chi sono questi Gog e Magog, e perché io non ne sapevo niente? Che figure mi fate fare in società? (Continua sul Post...)
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La meretrice nel deserto

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Qui è ancora vestita.
1° aprile - Santa Maria d'Egitto (IV-V sec.), ex meretrice e patrona delle medesime.

Mettete a letto i bambini. Siamo nella Giordania del V secolo, ormai gli anni ruggenti dei martiri sono finiti, adesso vanno di moda gli eremiti. Gente che va nel deserto e ci resta per anni senza mangiare niente: la gente ne va matta, molti attraversano il Giordano alla ricerca di questi anoressici modelli di perfezione. Tra questi cercatori vi è un monaco palestinese, Zosimo (o Zozima), già stimato e riverito da tutti per la saggezza e la rettitudine. Un giorno una voce gli ha detto: Zosimo, o Zozima che dir si voglia, ma chi ti credi di essere, un Santo? Ma va', va', attraversa il Giordano se vuoi vedere quelli che fanno sul serio. Zosimo obbedisce, e si inoltra nel deserto alla ricerca di qualche "santo padre antico solitario". Dopo venti giorni di nulla, gli appare da lontano un'ombra, un miraggio, si direbbe... una donna, una vecchietta dai capelli d'argento e dalla pelle secca. Zosimo si mette a correre verso di lei, ma la donna gli sfugge. "Perché mi fuggi? Ti prego, fermati, parlami". "Zosimo, abbi pazienza, non vedi che sono nuda? Se vuoi che io parli con te, gettami il tuo palio, acciocché possa coprirmi". Accidenti, pensa Zosimo, questa sa persino come mi chiamo, è una santa seria. E adesso cosa fa? Si è inginocchiata a oriente, ma... per san Girolamo, sta volando! Ehi, ma siamo sicuri che non è un'allucinazione? Dopotutto è da venti giorni che vago nel deserto praticamente senza mangiare né...

"Zosimo, o Zozima che dir si voglia, non dubitare. Io non sono un'allucinazione o uno spirito maligno, ma una femmina peccatrice. Vuoi conoscere la mia storia? A dire il vero ho paura che ascoltandola fuggirai da me, non potendo il tuo cuore reggere tanta iniquità: ma se proprio insisti..."

Flashback! Quarantasette anni prima, su un dock di Alessandria d'Egitto, una donnaccia si accosta a un gruppo di dieci marinai: ehi belli, ve ne salpate di già? Che peccato, e dove andate? Portiamo un carico di pellegrini a Gerusalemme, sai, il Santo Sepolcro. "Ah, ecco cos'era tutto questo movimento in giro, i pellegrini. Sentite, ma mi portereste con voi?" "Se hai il denaro per il naviglio, volentieri". "Il denaro non ce l'ho, ma una volta a bordo sarò io il vostro naviglio, ah ah". Dice proprio così. Qualcuno dei marinai si allontana schifato, qualcun altro sorride magari perché l'ha riconosciuta: costei è Maria d'Egitto, non è una come tutte le altre. Lei, per dirla col poeta, lo faceva per passione:
Diciassette anni fui meritrice pubblica e sì disonesta e libidinosa che non m’inducea a ciò cupidità o necessità di guadagno, come suole addivenire a molte, ma solo cupidità di quella misera dilettazione; in tanto ch’io m’andava profferendo impudicamente e non volea altro prezzo da’ miei corruttori, reputandomi a prezzo e a soddisfazione solo la corruzione della lussuria: onde gli giuochi, l’ebrietadi, e altre cose lascive e induttive a quel peccato, io riputava guadagno; e spesse volte rinunziava al guadagno e ai doni per trovare più corruttori, sicché nullo si scusasse e lasciasse di peccare con meco per non avere che darmi; e questo non faceva io perch’io fossi ricca, ma avvegnach’io fossi indigente, sommo mio disiderio e diletto era stare in risi e in giuochi e in disonesti conviti e ‘n corruzione continova.
Piccola parentesi dotta. La vita di Maria d'Egitto ci arriva in tre versioni. La prima è di san Sofronio, patriarca di Gerusalemme tra sesto e settimo secolo, ed è forte il sospetto che se la sia inventata lui (e complimenti patriarca per la fervida fantasia). La seconda è un riassuntino di una nostra vecchia conoscenza, Jacopo di Varazze (o da Varagine). Varazze è un po' il Moccia del Medioevo, nel senso che come scrittore non lo si direbbe veramente un granché, un compilatore senza particolari abilità: senonché doveva avere intuito qualcosa che ancora non abbiamo capito, perché la sua Legenda Aurea divenne presto un best seller e lo rimase per tutto il medioevo, quel millennio famoso in cui i libri non li mettevano in vetrina, ma li ricopiavano a mano, se necessario raschiando via l'inchiostro di altri libri magari più interessanti. Ecco, fa un po' piangere il cuore che di tante opere celebri dell'era antica non ci restino che brandelli, e di una compilazione tutto sommato banalotta come la Legenda Aurea ci siano arrivate più di millequattrocento copie manoscritte. Cioè, almeno le teenager che leggono Moccia non stanno raschiando via Nabokov o Proust, anche se in un certo senso sì, lo stanno facendo. La terza versione è quella che sto citando, ed è già in volgare: avete notato come scorre bene, malgrado la patina medioevale? Perché è di Domenico Cavalca, un domenicano del Due-Trecento che scriveva benissimo. La vita di Maria Egiziaca è considerata il suo capolavoro: Gianfranco Contini la riporta nella sua antologia della Letteratura italiana delle origini, che è dove l'avete letta voi, popolo di laureati in lettere. Ma probabilmente non c'era bisogno di ricordarvelo, probabilmente di quel mattone è l'unica pagina che vi rammentavate, dopotutto Maria è la cosa più hard che succede nella letteratura italiana fino al Boccaccio, ma forse anche dopo. Diciamo fino a D'Annunzio. Ma forse anche dopo. Pasolini? Boh. (Continua...)
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Uno spettro si aggira nel Nordafrica

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Pensate che c'è gente che, di fronte ai moti che scoppiano tra Maghreb e Medio Oriente, continua a porsi il problema se avesse o no ragione Bush. Ma chissenefrega di Bush, scusate, e poi chi era questo Bush, in fin dei conti. Qui c'è bisogno di idee nuove. Per capire una realtà in rapido movimento. Nuove teorie. Pensatori originali. Per esempio, questo signore:


sulle rivoluzioni, ha dei punti di vista molto interessanti. Lo spettro che si aggira nel Nordafrica è sull'Unita.it, e chi non vuole condividerlo e commentarlo su facebook (cosa vi avrà poi fatto di male facebook), può farlo qui sotto.

Io delle ultime rivoluzioni del Nordafrica non ho capito un bel niente. Tanto vale ammetterlo. Non le avrei mai previste, fino a qualche mese fa; quando Ben Ali scappò pensai che una cosa del genere non sarebbe potuta accadere a un leader potente e universalmente rispettato come Mubarak; quando se ne andò pure Mubarak pensai che questo poteva succedere in una società dinamica come l'Egitto, mentre in quella caserma stagnante che era la Libia Gheddafi avrebbe conservato il suo potere per sempre. Insomma, non ne capivo niente, continuo a non capirne niente, difficilmente migliorerò in futuro.

Mi consola l'essere in ottima compagnia. I più grandi esperti di geopolitica. I diplomatici più consumati. Gli statisti più potenti. Nessuno di loro ha previsto quello che sta succedendo. L'inverno del 2011 è stato ancora più sorprendente dell'autunno 1989; a quei tempi la glasnost di Gorbaciov aveva già fatto annusare un po' di aria diversa a chi se ne intendeva. Ma chi avrebbe scommesso tre mesi fa un euro o un dollaro sull'esilio di Mubarak? Voi no? Complimenti, ve ne intendete più o meno come i consulenti della Casa Bianca. O gli opinionisti del New York Times. Siamo tutti cascati dalle nuvole, insieme.

Ma davvero era così difficile prevedere tutto questo? Ora confesserò una colpa grave, anche se credo che i lettori dell'Unità saranno comprensivi. Senza essere uno studioso di Marx – perché davvero, non lo sono – io mi ritengo di impostazione marxista, anche se di un marxismo imparaticcio, di terza o quarta mano. Davanti a una rivoluzione, per esempio, sarò portato a domandarmi quali siano le classi sociali in lotta tra loro, chi detenga i capitali e i mezzi di produzione, e se per caso non ci sia una carestia in giro, perché già nel 1848 in Europa l'andamento delle rivoluzioni sembrava legato all'aumento dei prezzi dei cereali. Sembra infatti che la gente scenda in piazza quando ha fame. Poi trova anche altri argomenti (costituzioni democratiche, diritti civili, diritti del lavoro, nazionalità, libertà religiose...), altri spettri da agitare, però la fame ha tutta l'aria di essere un elemento scatenante. Tutto questo io lo so – credo di saperlo – semplicemente perché l'ho studiato nei testi di persone che avevano studiato su testi di persone che avevano studiato Marx, quindi non è affatto detto che la cosa funzioni. Eppure.

Eppure un marxista vecchio stampo in questo caso avrebbe potuto prevedere qualche rivolta nel mediterraneo con qualche anticipo sui teorici della Jihad mondiale o del complotto CIA (sì, c'è pure chi crede che sia tutto un complotto CIA, con Barack Obama che finge di non sapere dov'è la Libia sulla cartina, ma nell'ombra trama ghignante; Marcello Foa sul Giornale ha scritto dei pezzi molto divertenti sull'argomento). È un peccato che non li facciano più, questi marxisti vecchio stile, perché con tutti i loro enormi difetti, forse sarebbe bastato mettergli in mano i prezzi dei cereali quattro mesi fa, e avremmo avuto una previsione di rivolta nel medio-breve termine. E invece cosa abbiamo? Analisti e opinionisti che si guardano smarriti e si affidano più o meno alle loro emozioni. Com'è possibile che tutto accada nel giro di pochi mesi, si domandano? (in realtà accade sempre tutto nel giro di pochi mesi: basta leggere i manuali di Storia... ah, già, ma li hanno tutti scritti i marxisti, maledizione). Stimati osservatori traggono auspici dal fatto di non avere ancora visto bruciare una bandiera americana; in Libia per la verità si vede poco o niente, ma se domani da qualche fotoblog uscisse fuori una bandiera bruciacchiata del genere, cominceremo a gridare Mamma li jihadisti? Se qualche migliaio di egiziani posta la rivolta su Twitter, la rivoluzione diventa un affare di Twitter; poi torna dall'esilio un imam, fa un comizio davanti alle telecamere, e improvvisamente la Twitter generation cede il passo alla Repubblica Islamica. Un esercito depone il dittatore? Un sacco di pensosi opinionisti si precipitano a scrivere che non è mai una buona notizia quando un esercito depone qualcuno. Già, di solito quando si fanno le rivoluzioni l'esercito rimane neutrale, consegnato nelle caserme. È un peccato che costoro non fossero già in servizio attivo ai tempi di La Fayette, o della Rivoluzione dei Garofani, o quando Badoglio sostituì Mussolini: avrebbero potuto gridare al golpe già allora.

Ma i più buffi di tutti restano i Neocons – non quelli originali; diciamo quelli all'amatriciana che, come certi personaggi di telefilm, bloccati per anni su isole deserte, nel 2011 continuano a combattere una lotta senza quartiere per difendere fuori tempo massimo il loro eroe, che in caso ve lo foste dimenticato, era George W. Bush. Ancora lui? Ebbene sì, è lui il vero ispiratore della rivoluzione egiziana, scrivono. Come si fa a capirlo? Semplice: quand'era presidente finanziava gruppi egiziani anti-Mubarak (ma finanziava molto di più Mubarak). Poi Obama ha tagliato quei finanziamenti. Poi il prezzo dei cereali è andato alle stelle. Infine l'Egitto si è ribellato a Mubarak. Come si fa a non vedere che è tutta una geniale strategia di Bush e dei suoi sapienti consiglieri? Se poi dopodomani un partito islamico antisionista dovesse vincere le elezioni al Cairo, saranno pronti a scrivere che aveva ragione Bush a sostenere Mubarak, vicino affidabile di Israele. Ma in realtà i Neoconi più che aiutarci a risolvere un mistero, ne aggiungono un altro: cosa c'era di così affascinante in Bush per continuare a sostenerlo anche oggi che non è nemmeno più ricandidabile? Come se la pagina dell'Iraq non si riuscisse più a voltare. Bisogna assolutamente dimostrare che quella guerra lunga e sanguinosa sia servita a qualcosa, e allora si arriva a dimostrare che i rivoltosi egiziani hanno preso l'esempio da quelli iraniani, che a loro volta avrebbero cominciato a manifestare perché hanno visto che in Iraq un regime si poteva cambiare. È una congettura interessante: la guerra in Iraq che causa le manifestazioni in Iran che causano il crollo di Mubarak...  anche solo per l'acqua che perde in tutti i passaggi: a noi che non siamo neocons sembrava piuttosto che le invasioni di Iraq e Afganistan avessero portato l'Iran a un arroccamento intorno al suo commander in chief (Ahmadinejad); quando poi gli studenti delle città hanno manifestato sono stati repressi nel sangue: il che a rigor di logica avrebbe dovuto demotivare gli aspiranti rivoluzionari del Cairo, piuttosto del contrario... ma noi che ne sappiamo, in fondo? Niente.

Proviamo ad articolare questo niente, con le categorie che il nostro imparaticcio marxismo ci ha lasciato in eredità. Sappiamo che il prezzo di acqua e cereali aumenta, e continuerà ad aumentare per un po'. Le nazioni arabe sono mediamente ricche di risorse naturali, ma acqua e cereali li devono importare. Questo può avere avuto l'effetto di rendere insostenibili ai popoli quei governi che per decenni non hanno redistribuito le ricchezza del sottosuolo. Ora i prezzi non diminuiranno – non basta assediare i forni, questo prima di Marx ce lo aveva mostrato Manzoni – ma alcune sacche di corruzione erano insostenibili, dovevano sgonfiarsi. Cosa accadrà adesso? Dipende dai gruppi sociali, che in un primo momento vanno insieme sulle barricate per sconfiggere il tiranno, ma poi cominciano a lottare tra loro per il famoso controllo dei mezzi di produzione. Se nessun Paese arabo del Medio Oriente, fin qui, sembra essere riuscito a evolversi in una democrazia parlamentare nel senso europeo del termine, questo non è accaduto perché gli arabi siano etnicamente inadatti alla democrazia (come sostiene qualche criptofascista o qualche uomo di paglia dei neoconi) ma perché questi regimi parlamentari sono espressione del ceto medio, e in queste nazioni il ceto medio spesso non c'è. Talvolta l'unico vero ascensore sociale è l'esercito, l'unica ombra di 'classe media' è rappresentata da militari e funzionari statali: in questi casi molto spesso è l'esercito a gestire le rivoluzioni, dalla Turchia di Ataturk fino alla Libia del ventisettenne colonnello Gheddafi. Se in molte aree  la classe media è quasi inesistente (ma non nel popoloso e urbanizzato Egitto), esiste in questi Paesi un cospicuo bacino di abitanti sotto la soglia della povertà – proletari e sottoproletari, li avremmo chiamati – che sono il terreno più adatto alla diffusione del fondamentalismo islamico (un'etichetta un po' di comodo: confondere la Fratellanza Islamica ad Al Qaeda è una bestialità). In casi come questi, dunque, la seconda fase della rivoluzione potrebbe vedere la contrapposizione tra fondamentalismo nelle province ed esercito nei centri urbani, con il primo che cerca il consenso dei più umili sviluppando un welfare alternativo a quello statale, e il secondo che cerca di legittimarsi (anche all'estero) come difensore di istanze progressiste e laiche. Non sappiamo se andrà così: diciamo che è andato più o meno così in Turchia e in Algeria negli anni '90. Perché dovrebbe andare diversamente, per esempio, in Egitto? Perché l'Egitto è grande, giovane, ha ormai sviluppato un ceto medio che non può sottomettersi agli imam né ai colonnelli di turno, e ha insomma tutta l'energia per stupire i veteromarxisti con le loro categorie ottocentesche.

Ma in Libia? O in Bahrein? Chi lo sa. In realtà ne sappiamo veramente troppo poco. Alcuni dettagli – l'indipendentismo della Cirenaica – ci sfuggono del tutto, siamo già contenti di ricordare dove sta sulla mappa, la Cirenaica. La dialettica tra Sunniti e Sciiti, nel Bahrein, non è così facilmente riconducibile allo schemino marxista di ricchi e di poveri (anche se gli sciiti sembrano occupare ovunque il gradino più basso della società). Le teorie si elaborano a partire dalle informazioni, e informazioni ce ne arrivano poche. Finché continuiamo ad avere dieci opinionisti por ogni reporter sul campo... d'altro canto, i dieci opinionisti costano meno e riempiono più fogli...

In attesa di vedere cosa succede, almeno qualcosa lo abbiamo imparato. Che le rivoluzioni sono un po' più imprevedibili, specie da quando abbiamo smesso di leggere Marx. Se oggi Mubarak e Ben Ali non sono più al loro posto, se lo stesso Gheddafi potrebbe non esserci più da un momento all'altro non è grazie alla Cia, non è grazie a Bush, non è grazie ai leader europei che, con le tutte le loro meravigliose idee sulla democrazia d'esportazione, avrebbero continuato ad abbracciare e baciare questi tiranni finché non avessero ceduto il potere ai figli. La Storia non la fanno sempre i potenti con le loro idee: più spesso la fanno i popoli, soprattutto quando hanno fame. Ecco la mia teoria – assai poco originale.
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Ma quest'Africa, poi, dove sta?

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Professione Disastro

Quello che è riuscito a fare Walter Veltroni nelle ultime settimane è incredibile. Stupefacente anche per chi pensava di conoscerlo un po', Walter Veltroni; di essersi assuefatto, a Walter Veltroni. No. Veltroni ha questo, che riesce a essere sé stesso e a stupirti lo stesso sempre.

Vogliamo riassumere? Due settimane fa - Silvio Berlusconi era già discretamente a mollo nelle sue stesse secrezioni - Veltroni pensò bene di convocare un'adunata della sua corrente, un Lingotto Due dove lanciò, tra le altre, l'idea fantastica di una patrimoniale. Fantastica, sì, peccato che la presentò in un modo per cui praticamente la dovremmo pagare un po' tutti, la patrimoniale di Veltroni. A questo punto, ed è un'incredibile coincidenza, no? Un vecchio amico di Veltroni, praticamente uno di famiglia, Giuliano Ferrara, si è scrollato di dosso la polvere clericale che si era accumulata in anni di abbandono, ed è tornato a contare qualcosa nello staff berlusconiano. Esempio commovente di topo che non abbandona la nave che affonda, Ferrara ha scritto per conto di Berlusconi una commovente letterina in cui scongiura Bersani di non fare la patrimoniale. Bel colpo, no? Bersani (che ovviamente ha dovuto respingere la proposta) si è ritrovato cucito addosso una patrimoniale che non era nel programma del PD. La ha anche sconfessata pubblicamente a Ballarò - troppo tardi, tra un po' si va a votare e il PD sarà presentato come il partito che vuole carotare tutti gli italiani con una casa di proprietà. Tutto questo dimostra che Ferrara non è ancora un vecchio arnese, e poi? Che altro dimostra? Ah, sì. Che Veltroni è... Veltroni. Ma si può essere più disastrosi di Walter Veltroni? Si può fare? Qualcuno può superarlo?

Ma certo che si può. Veltroni stesso, ad esempio: lui può. Non c'è limite. No limits. Ieri è morta la dolce Maria Schneider, e voi direte vabbe' che c'entra. Cosa vuoi che c'entri. Assolutamente nulla, uff questi blog che saltano dal palo alla frasca. Sì, ma aspettate. Vi ricordate, vero, che Veltroni è uno studioso di cinema? Che ne conosce a mucchi, di cinema? Che scriveva le trame dei film in tv per il Venerdì, nello stesso periodo in cui faceva non so se il Ministro alla cultura o il Vicepremier o il segretario dei DS al minimo storico o tutte e tre le cose? Ebbene, Veltroni ha voluto scrivere il coccodrillo per Maria Schneider. Bene: è un esperto, scriverà cose belle su di lei. Bof. Cinque righe, non molto originali, senza un solo apprezzamento per le sue qualità di attrice.
Maria Schneider era bellissima. Di una bellezza assai rara. Era sfrontata, con il suo corpo rassicurante. Era angelica, con quello sguardo da adolescente impertinente. La sua sensualità era moderna, un impasto di solitudine e nevrosi. Era, esteticamente, figlia del ‘68 e della rivoluzione femminista. Era una ragazza del suo tempo. Un tempo giovane, per la vecchia Europa.
Par di capire che era bella e basta. Ma aspetta. Dove sta andando a parare?
Ci pensavo guardando in queste ore le immagini delle rivolte nel Nord Africa. In piazza sono tutti giovani, segno di società dinamiche. Ma, in piazza, sono tutti uomini. Indice di comunità che negano diritti fondamentali e protagonismo alle donne.

No, ma sul serio? Quindi insomma Walter "Vado-in-Africa" Veltroni non ha la minima idea di quello che sta succedendo al Cairo? E ci tiene comunque a dircelo? A lanciare il suo messaggino di ignoranza benpensante ad usum del lettore della Stampa, affinché tutti noi possiamo, domani, al bar, sentire più forte e chiaro il tizio che Signora mia, se va via Mubarak quelli metteranno le donne sottochiave? Roba che neanche Christian Rocca, ormai?

Via Lia, allego una gallery di foto di donne che stanno manifestando al Cairo. Adesso. Si trovano su Internet, una rete di condivisione delle informazioni di cui forse Veltroni non ha sentito ancora parlare. Va bene, non importa, è ancora un giovane, diamogli tempo, ne abbiamo così tanto.
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L'unica democrazia buona

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Cari egiziani, fate i bravi, tornate a casa. L'unica democrazia buona è quella che si esporta. Diffidate del prodotto locale.
(English version).
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Più di mille parole

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La guerra delle cartoline

C'è una foto incredibile di Rina Castelnuovo che è sepolta da mesi tra i miei bookmark. Ogni tanto ci passo sopra col mouse e sovrappensiero la riapro. Allora accade ogni volta la stessa cosa: mi dico “ma questa è straordinaria! Perché non l'ho mai pubblicata?” e decido di farlo seduta stante. Invece non faccio in tempo ad aprire la pagina che i dubbi hanno già preso il sopravvento. Tranne forse stavolta. (In ogni caso vale la pena di avvertire: questo pezzo non ha molto a che fare con la strage al largo di Gaza. È tutto un pezzo su quella fotografia, e soprattutto sull'opportunità di pubblicarla o no. Una questione piuttosto astratta e privata, mentre fuori si scannano, certo).

+ La foto è già un po' famosa, o meriterebbe di esserlo. Pubblicata su Internazionale, è arrivata al mio portatile al termine di una tortuosa catena di link. Il ragazzo è di origine europea o americana, la donna è una palestinese. Da come curva le spalle dà l'impressione di avere una certa età. Siamo a Hebron, la città dei patriarchi, la più sacra agli ebrei dopo Gerusalemme. Ma non è in Israele; è in Cisgiordania, territorio occupato. Il ragazzino che lancia il vino non è, propriamente, un israeliano: è un colono ebreo. Per parte dell'opinione pubblica israeliana (e persino italiana), è un eroe assediato dai terroristi, che difende con la sua sola presenza le radici ebraiche di Hebron. Questa foto mostra una realtà diversa, una quotidianità di provocazione e arroganza che combacia con altre testimonianze (le reti tese sopra il mercato palestinese per proteggere le bancarelle dai rifiuti lanciati dai coloni). Pubblicarla sul mio sito avrebbe semplicemente un valore di testimonianza: meglio di qualsiasi mio lenzuolo di parole, questa foto mostra a chi non vuol vedere da che parte stiano la prepotenza e la sopportazione.

- D'altro canto, è solo una foto. Qualche filoisraeliano la vedrà e ne posterà una di segno contrario, magari un palestinese che brucia la bandiera azzurra (oooodio!) o la sagoma di Hitler su una baracca di Gaza (iiiiiislamoonazismo!) E andremo avanti così, rinfacciandoci cartoline dalle due sponde dell'inferno. Ma ho sempre pensato che non abbia senso. Forse perché non so fotografare, ma ho sempre rifiutato il giochino: in particolare mi hanno sempre fatto ribrezzo gli avvoltoi che postano i bambini morti dalla loro parte, per convincere sé stessi e gli altri di stare dalla parte giusta. Come se non fossero morti bambini da entrambe le parti. Le foto sono disoneste perché ritagliano un fatto e ti costringono a provare emozioni per quel singolo bambino morto, per quella signora che probabilmente prova per l'odore del vino la stessa repulsione viscerale che io provo per alimenti alieni alla mia cultura: non abbiamo bisogno, io e lei, di consultare il nostro libro sacro per sapere che ci fanno schifo: ci viene da vomitare e basta, siamo fatti così, voi la chiamate Cultura ma noi non l'abbiamo scelta, se ci innaffiano con quella roba ci sentiamo pieni di vergogna e temiamo che nemmeno annegandoci la puzza ne verrebbe via... Ecco, vedete, mi sono immedesimato. Ma da qualche parte c'è un palestinese che tira una pietra a un soldato di leva israeliano, non dovrebbe farmi male la testa anche per lui? A questo modo emotivo di appassionarsi a una guerra ho sempre preferito un approccio pragmatico e crudo: volete parlarmi di bimbi morti? Contiamoli. Vediamo se ne ha fatti più Piombo Fuso o più i razzi Qassam. Poi decideremo per chi emozionarci. Ma se pubblico questa foto, io mi arrendo alle emozioni, all'empatia, alla propaganda che si nutre di cartoline...

+ D'altro canto, questa foto è una bomba. Non teme il confronto. Nessun palestinese odiatore calpestante vessilli in fiamme reggerà mai una foto del genere. Qui non c'è nessun pietismo, la signora è di spalle, e sono le spalle più dignitose che ho mai visto nella mia vita, probabilmente perché dietro di loro sono libero di immaginare il volto che voglio, e ovviamente non farò che prendere mia madre o mia nonna con tutta la loro dignità, e abbronzarle appena un po'. Quant'è bianca, invece, la faccia del colono. Giù la maschera: questa è la faccia dell'imperialismo bianco. Lo stupid white boy, il turista anglosassone tronfio e cretino da generazioni, che segna il territorio col suo bricco di tavernello. Fa la cosa più bianca e imperialista che si possa immaginare: sporca, riempie il mondo di rifiuti. Un mondo povero, ma dignitoso, deve diventare la sua discarica. A Hebron i coloni fanno la guerra coi rifiuti: quello che l'Uomo Bianco riconosce ormai come una vergogna nella sua madrepatria (l'attitudine a lordare) nelle colonie d'oltremare è rivendicato come un preciso diritto politico: hai dei fondi di bicchiere? Li puoi usare per rendere un po' più difficile la vita dei palestinesi. Che foto incredibile.

- E mentre me lo dico capisco che c'è qualcosa che non va. Il mio buonumore. Là fuori si scannano, amici o nemici, ma io ho trovato una foto che darà forza ai miei amici, e farà stridere i denti ai miei nemici. Ma è questo che voglio? Nel mio blog io parlo di scuola, tv, qualche film un po' di musica, e di Palestina: ma saltuariamente: solo quando un massacro la riporta in prima pagina. Perché lo faccio? Perché un giorno promisi qualcosa a qualcuno? Credo davvero che ci sia qualcuno là fuori ancora da convincere, qualcuno disponibile a cambiare idea? O voglio semplicemente far bella figura col mio blog, attirare l'attenzione del migliaio di persone non particolarmente influenti che bazzicano? E se fossi davvero tutto qui, una persona superficiale che tra fare qualcosa di concreto e chiacchierare a vanvera ha scelto una volta per sempre la seconda?

- Ma se chiacchiere devono essere, almeno siano farina del mio sacco. Questa foto non è mia. Se la usassi, la ruberei. Certo, si è già fatta un bel giro su internet. Ma il mio non è un sito di segnalazioni; è un sito di contenuti. In gran parte, testuali. Le immagini sono quasi tutte rubate, e servono solo ad alleggerire o a fornire qualche pezza d'appoggio – ma una foto così non sarà mai un corredo di niente. È uno scoop, è un editoriale fatto e finito. Potrei versarci sopra la mia solita colata di parole, ma sento che sarebbe disonesto: qualsiasi parola mia accanto brillerebbe di luce riflessa. Non potrei neanche sporcarla, distorcerla, sfuocarla, come faccio spesso con le immagini che rubo, per sentirmi meno ladro.

- Per di più adesso c'è la questione della pubblicità. Non se n'è accorto praticamente nessuno, ma da qualche settimana a questa parte il mio sito ha uno spazio pubblicitario. Non è una rivoluzione, in dieci anni su Blogger è successo di tutto: nei primissimi tempi ho vaghi ricordi di enormi banner con loghi e suonerie, e una scimmietta a cui dovevi sparare per vincere gettoni d'oro. La novità è che ora qualche centesimo mi arriva in tasca. Quanti? Pochi. Non abbastanza per mettermi a inventarmi espedienti per attirare lettori... ma pubblicare una foto del genere, così potenzialmente controversa, non sarebbe esattamente un espediente? Voglio rubare il lavoro di una fotografa professionista? Voglio usare la tragedia palestinese per attirare clic sul mio sito e centesimi nelle mie tasche? Non mi sembra di essere così gretto, ma di fatto lo diventerò.

+ Insomma, come vedete alla fine ho scelto. Ho messo tutti i pro e i contro sulla bilancia, e poi ho rotto i piattini. La foto è una bomba, pubblicarla è sleale, e probabilmente io sono una patetica persona che ruba cartoline e specula un piattino di lenticchie su enormi tragedie, e pensa di coprirsi dietro lenzuoli di metadiscorsi. Tutto questo è vero, ma è anche poco rilevante di fronte all'immensità dell'universo, alla profondità dell'odio, e alla rabbia muta di quelle spalle, che credono di dover sopportare all'infinito, e invece (grazie a una fotografa israeliana) faranno il giro del mondo. E il giro del mondo oggi passa per di qui, semplicemente. Non me lo merito: chi se ne frega. Guardate la foto, le mille parole che ci ho messo intorno valgono ancora meno del solito.
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5 sofismi su Israele

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Io non credo che ci sia nulla di male nel voler difendere Israele in una discussione. Il problema è il come. Tanti sedicenti avvocati della causa di Israele portano avanti i loro ragionamenti con una serie di argomenti fallaci (o sofismi) che mi fanno rabbrividire, e che finiscono per ottenere il risultato opposto: rendermi più sospettoso nei confronti degli israeliani. Molti dei quali resterebbero sconvolti, credo, leggendo certe castronerie con cui li si difende qui da noi. A volte sembra che il conflitto israelo-palestinese abbia una logica tutta sua, che funziona solo dal Giordano al mare, e che se provassimo ad applicare altrove (anche da noi) provocherebbe caos e distruzione nel giro di pochi minuti.

Col tempo ho finito per riconoscere alcuni di questi sofismi da lontano; tanto che a un certo punto ho pensato di fare cosa utile mettendoli in una lista, con tanto di sottolink. Sarà un pezzo un po' lungo, ma ne vale la pena se può risparmiarci lunghe e sterili discussioni in futuro. Un'avvertenza per gli studiosi di logica e retorica: in questo pezzo molte definizioni sono usate in modo popolare e improprio. Anche i sofismi, per esempio, non sono proprio tutti sofismi (alcuni credo siano tropi). Confido nel vostro perdono.

1. Mozione degli affetti.
Si parla di Israele e a un certo punto qualcuno sbotta: “se non sei israeliano non puoi capire”; oppure “se non hai amici israeliani non puoi capire”, o “se non sei stato laggiù”, “se non ti è morto nessuno in un bar”, “se non ti è mai piombato un razzo in casa”, “se non hai mai dovuto mandare i figli su autobus separati”, ecc. ecc.
Purtroppo l'affetto è un'arma a doppio taglio: chi scrive queste cose molto spesso mostra lacrime sincere. Ma non si rende conto (o finge di non sapere) che da qualche parte ci sono anche amici di palestinesi, e parenti delle loro vittime; forse che non sanguinano anche loro, eccetera?
Io diffido terribilmente dalla mozione degli affetti, che portata alle estreme conclusioni significa questo: solo le persone coinvolte davvero in una guerra o in un crimine hanno il diritto di parlarne. Sembra una cosa di buonsenso, e infatti lo era: al tempo dei regni barbarici. Ma persino i Barbari a un certo punto si sono resi conto che la giustizia non spetta alle vittime o ai parenti delle loro vittime, bensì a qualcuno che, proprio perché non è stato toccato negli affetti, può decidere con serenità e oggettività. Così è rinato il diritto. Oggi chi metterebbe il parente di una vittima nella giuria che giudica un presunto assassino? Sì, molti giornalisti italiani lo farebbero. Ma ogni volta che qualcuno ne parla, è come se proponesse una momentanea regressione al medioevo. Grazie, no. Paradossalmente, israeliani e palestinesi sono le persone meno in grado di discutere della loro guerra con oggettività e serenità. La loro rabbia e la loro disperazione sono comprensibili. Ma non ha senso scimmiottarle in una discussione.

2. Sofisma del "meno peggio"
“Sì, certo, Israele ha molti difetti, ma... non puoi metterla sullo stesso piano di Hamas”.
Non c'è dubbio che Israele sia meno peggio di Hamas. E figurarsi, io sono sempre stato un patito della formula del “meno peggio”. Ho sempre votato per il meno peggio e lavorato per il meno peggio. Ma attenzione: la tattica del meno peggio funziona solo a patto che il meno peggio di oggi sia peggiore di quello di domani. In Israele accade il contrario: ogni guerra aumenta il divario tra vittime israeliane e vittime palestinesi. Quello che era nato come conflitto tra popoli è diventato guerra di religione.
Il “meno peggio” diventa un sofisma quando viene usato per giustificare qualsiasi cosa: Israele può ammazzare cento palestinesi per ogni sua vittima perché... “è meno peggio”? Sicuri che lo sia ancora? Cosa dovrebbe fare, esattamente, per non esserlo più? Israele non si può criticare finché si macchierà di azioni appena appena meno peggio di quelle di Hamas?
Il sofisma del meno peggio è tra quelli che hanno senso solo se riferiti a Israele; prendi Arafat, ad esempio. Non c'è mai stato dubbio che fosse un interlocutore “meno peggio” di Hamas. E allora perché gli israeliani non hanno accettato di fare la pace con lui? Perché con lui la regola non valeva: era un palestinese.

3. Sofisma del “cratere”
Una variante del precedente, che ho letto anche di recente nei commenti. L'argomentazione più o meno è questa: “è vero che Israele sta facendo cose orribili, ma queste cose non sono niente rispetto a quelle che potrebbe fare grazie al suo potenziale militare”, (variante: “sono niente rispetto a quelle che col suo potenziale militare faremmo noi”). Da cui l'immagine dell'israeliano che si torce le mani perché potrebbe fare di Gaza un cratere in pochi secondi, e invece è costretto a sminarla casa per casa. Questo tipo di logica funziona solo nel conflitto arabo-israeliano: è una cosa folle. Qualsiasi strage può essere perdonata (ma solo agli israeliani) o almeno relativizzata, perché loro potrebbero farne anche di peggio. Ed effettivamente ne fanno sempre di peggio, ma finché non si arriva al cratere è ok.
Ma questa è esattamente la logica che porta al cratere.

4. Sofisma di UDdelMO
Non è un discepolo di Abelardo, ma una sigla che sta per "Unica Democrazia del Medio Oriente". Che sarebbe Israele, come notano i suoi fans un giorno sì e l'altro pure.
Ma scusate, e la Turchia? E non hanno avuto elezioni regolari i palestinesi? Ma anche se fosse: il fatto che gli israeliani abbiano un governo eletto democraticamente li autorizza a fare di Gaza quel che vogliono? La democrazia non è un valore assoluto: è solo un sistema di governo – il meno peggio, secondo qualcuno. Non è il governo dei buoni o dei bravi: è il governo dei più. È normale che difenda gli interessi dei più, in modo non necessariamente virtuoso o efficace.
Ciò che è buono per la maggioranza degli israeliani non è necessariamente giusto. Anche una maggioranza può avere torto. Già gli antichi avevano notato che in situazioni di emergenza la democrazia può essere controproducente: l'attuale crisi di Gaza non ci sarebbe stata se i partiti al governo a Gerusalemme non avessero sentito la necessità di mostrare al loro elettorato che sanno rispondere a Hamas colpo su colpo. Perché quando si dice che Israele sia una democrazia, si finge di non sapere quanti difetti abbiano le democrazie: necessità di compiacere piccoli partitini anche xenofobi, politiche clientelari, demagogia, corruzione (un avvicendamento tra Olmert e Netanyahu non è proprio il massimo che una democrazia possa augurarsi)...

Quando si passa alla Striscia di Gaza, il sofisma della democrazia viene totalmente capovolto. Ovvero: siccome la maggioranza dei palestinesi di Gaza ha votato per Hamas, sono tutti responsabili e quindi si meritano i bombardamenti. Ho capito bene? La democrazia dà a Israele il diritto di bombardare e a Gaza il diritto di prendersi le bombe. Uno che tentasse di argomentare il contrario (Hamas ha il diritto di bombardare perché ha vinto le elezioni, e se con un Qassam uccide un bimbo israeliano è ok, perché suo padre ha votato per Olmert) quanti punti antisemitismo totalizzerebbe? Non so, ma direi parecchi.

5. Sofisma della morte potenziale, o equazione Kissinger.
Questa andava molto forte ai tempi della Seconda Intifada. Già allora si diceva che i palestinesi “minacciassero l'esistenza dello Stato d'Israele”: poi però bastava contare le vittime per scoprire che morivano più dei loro nemici. Strano modo d'impostare un genocidio.
E tuttavia qualcuno non ha rinunciato a valorizzare le cifre dei caduti nel modo più filoisraeliano possibile. L'esempio classico (ma in Italia si leggevano cose del genere tutti i giorni sul Foglio) è quello di Henry Kissinger, che un giorno invece di dire “i palestinesi hanno fatto cinquanta morti israeliani in 3 giorni” affermò “gli attacchi suicidi hanno ucciso l'equivalente di 2500 americani in tre giorni”. Per ottenere una cifra di "2500 americani" Kissinger aveva moltiplicato le vittime degli attentati (50) per la popolazione degli USA (250 milioni) e diviso il tutto per la popolazione d'Israele (5 milioni). E si capisce che “l'equivalente di 2500 americani” suona peggio di “50 israeliani”; il problema è che non ne erano morti 2500, ne erano morti 50, c'è differenza. O no?
Chi decide di ragionare come Kissinger, grosso modo la pensa così: Israele è piccola e quindi ogni perdita è immensamente più preziosa. Anche questo ragionamento funziona solo con Israele: nessuno si sognerebbe mai di chiamare un morto palestinese “l'equivalente di 50 morti americani”.
L'equazione Kissinger contraddice anche il postulato dell'uguaglianza degli uomini, e lo sostituisce con un altro: tutte le nazioni, piccoli e grandi, hanno un tot di dignità che va diviso per il numero di abitanti. Il Liechtenstein, per esempio, ha trentamila abitanti: se ne ammazzi uno, ammazzi l'equivalente di diecimila cittadini americani: genocidio! Molto meglio sparare a un cinese, che è l'equivalente di un quarto di cittadino americano (una banale amputazione). Sì, sto scherzando. Ma c'è gente che queste cose le afferma davvero, in tutta serietà, senza accorgersene.

Oggi l'equazione Kissinger non va più per la maggiore, ma continuo a leggere conti stranissimi. Per esempio, siccome i Qassam facevano relativamente poche vittime (dico poche rispetto all'ecatombe che ne è seguita), invece di scrivere “Hamas questa settimana ha fatto due vittime”, mi è capitato di leggere: “Hamas sta prendendo a bersaglio duecentomila israeliani”, o addirittura “Hamas ha sotto tiro il dieci per cento della popolazione di Israele”. Coi Qassam. Così si sovrappone ad arte il numero dei veri caduti col numero dei caduti che i palestinesi potrebbero fare se avessero infinite munizioni e infinito tempo a disposizione. Naturalmente questa logica è applicabile soltanto ai nemici di Israele.

Continua...
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(e non del tutto sbagliate)

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Otto idee su Hamas, non del tutto giuste

1. È Hamas che ha rotto la tregua
Le tregue sono fatte per rompersi, per definizione. In particolare quella stabilita tra Hamas e Israele non è stata rotta: è stata rispettata (male) da entrambe le parti fino alla scadenza prevista. Dopodiché né Hamas né Israele hanno proposto di rinnovarla, e i bombardamenti sono ripresi: a quel punto i razzi di Hamas hanno fatto una mezza dozzina di morti, gli elicotteri israeliani più di quattrocento. Chi sostiene che l'operazione “Piombo fuso” è stata lanciata da Israele soltanto dopo che Hamas aveva ripreso le ostilità, racconta una versione più filoisraeliana dello stesso Israele: Barak, il Ministro della Difesa, ha ammesso che l'operazione è stata pianificata sei mesi fa. Del resto il tempismo è perfetto per mettere davanti a un fatto compiuto il Presidente Obama, che arriverà alla Casa Bianca solo a fine mese: se per allora la questione Hamas fosse archiviata, nessuno si lamenterà troppo del sangue sparso.

2. Hamas considera i civili israeliani dei bersagli e i civili palestinesi degli ostaggi

Sì; ma Israele non è da meno, e le cifre del bombardamento della scorsa settimana lo dimostrano. Chi ha un minimo di dimestichezza col conflitto israelo-palestinese dal '48 a oggi, e soprattutto dall'inizio della Prima Intifada negli anni Ottanta, sa che questa è una guerra civile, in cui il coinvolgimento di civili da entrambe le parti non è un un effetto collaterale, ma il senso del conflitto. Non si fronteggiano due eserciti, ma due popoli e (almeno dagli anni Novanta) due religioni. Non è una guerra fatta soltanto di combattimenti e attentati; è fatta di espropriazioni di terra e acqua, di insediamenti di popolazione, di demolizioni e di recinzioni. Il confine tra eserciti regolari e bande armate era molto sfumato sin dalla guerra del 1948, e lo è rimasto fino a oggi: da entrambe le parti. In particolare l'uso che Israele fa dei coloni nei Territori Occupati è un simbolo di questa ambiguità: i coloni sono civili che girano armati ed espropriano le risorse dei palestinesi. Perché Hamas non avrebbe dovuto considerarli obiettivi militari, alla stessa stregua di quei ragazzini che indossano l'uniforme dell'esercito? Mesi fa Hamas propose di non bombardare più bersagli civili se Israele avesse fatto lo stesso. Probabilmente era un bluff: in ogni caso Israele non lo andò a vedere.

3. Hamas vuole cancellare lo Stato di Israele dalle carte
.
Sì, perché lo considera l'“entità sionista”, uno Stato costituito sull'identità etnico-religiosa ebraica. Il piano di Hamas per la Palestina è speculare: uno Stato costituito sull'identità etnico-religiosa islamica. Il che ci pone un problema, o almeno lo pone a me: per quel che ho capito, infatti, Israele è veramente uno Stato costituito sull'identità etnico-religiosa ebraica – che invece di stemperarsi, negli ultimi anni è diventata più forte. Dunque perché fondare uno Stato ebraico in Palestina è ammissibile, e fondarne uno islamico no? Di solito le risposte che leggo sono le seguenti:
  • perché gli ebrei meritavano un risarcimento per la Shoah (sì, ma perché a spese dei palestinesi? Non ci toccherà poi di risarcire questi ultimi a spese di qualcun altro ancora?);
  • perché il mondo è pieno di Stati islamici, mentre uno Stato ebraico mancava (sì, ma io preferirei fare a meno di tutti gli Stati fondati su criteri etnico-religiosi, perché ritengo che il destino di Stati siffatti sia la guerra religiosa ed etnica per l'accaparramento delle risorse);
  • perché Israele è disposto ad accettare anche cittadini arabi (ma non tutti, perché nel giro di una generazione diventerebbero la maggioranza: questo è il motivo per cui Sharon si ritirò da Gaza); in ogni caso anche i membri di Hamas prevedono di accettare cittadini di fede ebraica nel loro futuro Stato Islamico;
  • perché Israele è disposto alla creazione di uno Stato Palestinese, ma Hamas non vuole scendere a patti. Questo è falso due volte; non è vero (1) che Hamas non abbia mai voluto scendere a patti: ci sono esponenti di Hamas che si sono detti favorevoli alla spartizione secondo i confini del '67. Se Israele avesse veramente voluto arrivare a una soluzione, avrebbe dialogato con loro, e non lo ha fatto. Ma in generale, non è vero (2) che i governi israeliani siano disposti alla nascita di uno Stato Palestinese, altrimenti quello Stato sarebbe già stato proclamato ai tempi di Arafat. Ma Arafat non andava bene; poi non è andato bene Abu Mazen; e sicuramente non poteva andare bene Hamas. I governanti di Israele sono riusciti a procrastinare la nascita dello Stato di Palestina per tutti questi anni, e nulla m'impedisce di pensare che il loro obiettivo sia di proseguire quest'opera di proscrastinazione all'infinito. Naturalmente spero di sbagliarmi, ma questa vecchia intervista al braccio destro di Sharon continua a sembrarmi attuale.
4. Hamas è antisemita
Sì. Le dichiarazioni antisemite da parte degli esponenti di Hamas si sono sprecate: non le linco perché sono veramente le più facili da trovare in rete. Anche lo Statuto ne contiene parecchi: ma chissà se i ragazzini perdono tempo a leggerlo. Anche perché è un documento contraddittorio: in certi passi sembra suggerire la necessità di eliminare tutti gli Ebrei (ma solo alla fine dei tempi), in altri si rifà al concetto di tolleranza coranica che è stato alla base della convivenza più o meno pacifica tra musulmani ed ebrei di Palestina per 13 secoli.
Perché quest'ambiguità? Perché Hamas è un movimento religioso, che si rifà a un Testo Sacro, e i Testi Sacri sono ambigui: anche nella Bibbia si legge forte e chiaro di un Dio sterminatore dei nemici di Israele, e perfino il messaggio evangelico contiene l'idea che tutto il mondo debba essere cristianizzato prima della fine dei tempi.

5. Hamas vuole sterminare gli ebrei di Israele.
No. La prospettiva del genocidio (oltre a essere oggettivamente ridicola, per l'evidente sproporzione dei mezzi), per quanto ho potuto leggere non è contemplata dagli esponenti di Hamas. La loro idea di togliere dalla cartina lo Stato di Israele, non implica lo sterminio degli ebrei che lo popolano. Si veda lo Statuto (art. 31):

Il Movimento di Resistenza Islamico è un movimento umanistico. Si occupa dei diritti umani, e si impegna a mantenere la tolleranza islamica nei confronti dei seguaci di altre religioni. È ostile solo a coloro che mostrano ostilità nei riguardi dell’islam, si mettono di traverso al suo cammino per arrestarlo o ostacolano i suoi sforzi. All’ombra dell’islam, è possibile ai seguaci delle tre religioni – islam, cristianesimo ed ebraismo – coesistere in pace e sicurezza. Anzi, pace e sicurezza sono possibili solo all’ombra dell’islam, e la storia antica e quella recente sono le migliori testimoni di questa verità. [...] L’islam concede a ciascuno i suoi diritti, e impedisce l’aggressione contro i diritti degli altri.

E la dichiarazione di Khalid Mish'al all'indomani della vittoria elettorale a Gaza (gennaio 2006, traduzione mia):

Il nostro messaggio agli israeliani è questo: noi non vi combattiamo perché appartenete a una certa fede o cultura. Gli ebrei hanno vissuto nel mondo musulmano per 13 secoli in pace e armonia; sono per la nostra religione "il popolo del Libro", che hanno un'alleanza con Dio e col suo messaggero Maometto (sia lodato) che deve essere protetta e rispettata. Il nostro conflitto contro di voi non è religioso, ma politico. Non abbiamo problemi con gli ebrei che non ci hanno attaccato, ma solo con quelli che sono arrivati nella nostra terra e si sono imposti con la forza, distruggendo la nostra società e bendendo il nostro popolo.
Noi non riconosceremo mai il diritto di nessun potere di derubare la nostra terra e negare i nostri diritti nazionali. Non riconosceremo mai la legittimità di uno Stato sionista creato sul nostro suolo per espiare i peccati o di qualcun altro, o per risolvere i problemi altrui. Ma se volete accettare i principi di una tregua a lungo termine, noi siamo pronti a negoziarne i termini. Hamas tende una mano di pace a coloro che sono realmente interessati a una pace basata sulla giustizia.

Chi sostiene la tesi di Hamas genocida, oltre ai deliri antisemiti di diversi esponenti, si rifà all'Articolo 7 dello Statuto, dove si cita un Hadith di Maometto:

Il Profeta – le preghiere e la pace di Allah siano con Lui – dichiarò: “L’Ultimo Giorno non verrà finché tutti i musulmani non combatteranno contro gli ebrei, e i musulmani non li uccideranno, e fino a quando gli ebrei si nasconderanno dietro una pietra o un albero, e la pietra o l’albero diranno: O musulmano, o servo di Allah, c’è un ebreo nascosto dietro di me – vieni e uccidilo; ma l’albero di Cedro non lo dirà, perché è l’albero degli ebrei
.

La guerra tra ebrei e musulmani, quindi, è destinata a durare fino all'ultimo giorno (ecco perché Hamas non può parlare di "pace" con Israele, ma solo di "tregua a lungo termine"), quando si salveranno soltanto gli ebrei dietro all'albero del cedro. Hamas però non è un movimento millenarista, non intende accelerare la fine dei tempi, e nel frattempo è disposta ad accogliere cittadini ebraici in una Palestina islamica, secondo i precetti di tolleranza previsti dal Corano.

6. Hamas è finanziata dall'Iran
Sì, quasi pubblicamente. Quando l'Europa ha bloccato i finanziamenti alla Striscia di Gaza, l'Iran si è fatto avanti. In realtà però Gaza è un recinto chiuso su tre lati da Israele e per il quarto dall'Egitto di Mubarak, che ha già fatto capire che non muoverà un dito per aiutare un movimento fondamentalista come Hamas. E quindi le possibilità concrete di ricevere rifornimenti di munizioni dall'Iran, attraverso i cunicoli scavati sotto il passo di Rafah, sono comunque molto limitate, e Hamas continua a fare la guerra coi Qassam e i vecchi Katiuscia. C'è una grande differenza tra le limitate capacità militari di Hamas e quelle degli Hezbollah libanesi, quelli sì riforniti abbondantemente dagli iraniani, che due anni fa seppero tener testa all'esercito israeliano.
Dunque sì, l'Iran per quanto può aiuterà, ma non è che possa molto. E allora perché si insiste tanto sulla sua complicità? Perché proprio l'Iran e non tutti i finanziatori occulti che dagli Stati arabi pompano denaro nelle casse di Hamas via fratellanza musulmana? Perché qualcuno ha deciso che il prossimo nemico è l'Iran, e quindi ora bisogna concentrarsi sul concetto di Ahmadinejad cattivo. Esattamente come sei anni fa era indispensabile focalizzarsi sul concetto di Armi di Distruzione di Massa. Quella era una grande bugia, mentre “Ahmadinejad cattivo” è solo una mezza verità: è assai probabile che finanzi e armi Hamas, ma non in modo determinante.

7. I palestinesi che hanno votato per Hamas sapevano cosa facevano. ...E quindi, mi par di capire, non si fa peccato a sterminarli. Ah, il fardello dell'uomo bianco.
I palestinesi, in particolare quelli che hanno passato la loro vita confinati nella Striscia di Gaza, sono giovanissimi, per la stragrande maggioranza disoccupati e poveri, e non possono disporre dei mezzi che in una democrazia occidentale consentono o dovrebbero consentire agli elettori di formare un giudizio equilibrato. Ci vuole un'ingenuità terribile per sovrapporre le dinamiche di una democrazia occidentale a quelle dell'universo concentrazionario di Gaza. Hamas ha vinto perché, in una situazione d'emergenza dove si vive alla giornata, ha dimostrato di avere capi meno corrotti, e soprattutto più risorse da distribuire, rispetto ad Al Fatah. Israele poteva in quell'occasione dimostrarsi pronto a una pace generosa con Al Fatah; questo forse avrebbe potuto far pendere la bilancia della simpatia popolare sul partito laico; ma i suoi governanti hanno deciso altrimenti. Del resto la trasformazione di un popolo in un movimento islamico con la certificazione internazionale di terrorismo ha portato agli israeliani almeno un vantaggio: oggi si bombarda Gaza a cuore più leggero rispetto a qualche anno fa.

8. Tu scrivi queste cose perché sei un sostenitore di Hamas
No, in nessun modo. Le poche iniziative di solidarietà per il popolo palestinese a cui ho partecipato erano organizzate col sostegno dell'OLP e dell'ANP. Nello stesso periodo ho visto chi, in Italia e in Palestina, lavorava per screditare la leadership di Arafat e per consegnare il voto dei giovani palestinesi a Hamas. Credo che la vittoria elettorale di Hamas a Gaza sia stata per quest'ultima la sciagura definitiva. Ma sui blog e perfino su alcuni quotidiani italiani ho letto tante castronerie e facili semplificazioni, al punto che a volte ho la sensazione che gli israeliani siano più equilibrati.
Il conflitto israelo-palestinese è di una complessità strabiliante, e credo che molti blog si siano fatti filo-israeliani per reazione a tutta questa complessità: ci si aspetta sempre che un leader israeliano estragga lo spadone con cui va reciso virilmente il nodo gordiano e risolto una volta per tutte il problema, e nel frattempo si riempie qualche paginetta web con appassionate apologie di strage che tra 50 anni i loro nipoti magari leggeranno dicendosi: eccola qui, la banalità del male.
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Questo non è un muro

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...ricapitolando:

- prima dice che Gerusalemme è indivisibile. E' un punto di vista.

- Poi lascia intendere che si potrebbe anche dividere. Anche questo è un punto di vista.

- Poi infiamma i berlinesi (tipi volubili) con un commovente discorso in cui propone di Tirare Giù I Muri. Ma proprio Tutti. Che per carità, è un punto di vista fantastico.

Mi resta la curiosità: tra Gerusalemme-Palestina e Gerusalemme-Israele cosa crede che ci metteranno, una bella aiola fiorita?

(Quello nella foto comunque non è un muro; infatti la denominazione corretta è: barriera difensiva).
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O pace o deserto

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Apro Repubblica e leggo:

Obama ai palestinesi: sarà pace


E subito penso: wow, forte Obama. Poi leggo meglio:

Obama ai palestinesi: sarà pace
'Israele, Gerusalemme capitale'

E comincio a pormi il problema. Perché, ecco, magari il lettore medio di Repubblica non lo sa (e non ha il dovere di saperlo - anzi forse ha il diritto di non saperlo già), ma quelle due frasi lì non potrebbero stare insieme. E' come se la prima dicesse: Bianco, e la seconda: Nero. In effetti la prima dice: "Pace". La seconda magari non ne ha l'aria, ma dice: "Guerra". Mi dispiace, davvero, non credo che Obama sia una cattiva persona, ma dice così.

A questo punto bisogna spiegare cosa c'è di sbagliato nell'indicare Gerusalemme Capitale. Gerusalemme è già la capitale di Israele, no? Non proprio. Cioè: per gli israeliani sì. Gerusalemme è la capitale israeliana "complete and united" per legge, dal 1980. Ma l'Onu, che per la città aveva altri piani, considera quella legge una violazione del diritto internazionale. Di fatto, le ambasciate risiedono a Tel Aviv. Nessun Paese membro dell'Onu, a parte Israele, riconosce alla città santa lo status di capitale israeliana. Nemmeno gli Stati Uniti di George Malvagio Bush. Finché un giorno arriva Obama. Incontra i palestinesi. E gli dice quel che ha detto. Chissà i salti di gioia a Ramallah.

Ma poi l'avrà detto davvero? E' estate, fa caldo, può darsi che l'istintivo entusiasmo per Obama abbia giocato un brutto tiro all'articolista, vediamo. Scorro l'articolo e ci capisco meno di prima. E sono uno che un po' di Medio Oriente lo mastico, figuratevi il lettore digiuno. Giudicate voi.
Sul futuro di Gerusalemme il senatore dell'Illinois ha però precisato: "Quello di capitale è uno status finale che dovrà essere deciso dai negoziati e in accordo con i palestinesi. La comunità internazionale, inclusi gli Usa, non riconosce la rivendicazione israeliana di Gerusalemme come sua 'eterna e indivisa capitale'"
Se ho capito bene: Capitale sì, Unita e Indivisibile no. Ecco, questo rappresenta una cauta apertura alla Palestina, o almeno ad Al Fatah, che ha sempre reclamato Gerusalemme Est come capitale del futuro Stato palestinese. La dichiarazione è importante soprattutto se si confronta con una di Obama di inizio giugno, in cui Gerusalemme era considerata non solo capitale israeliana, ma anche unita e indivisibile. A questo livello, un palestinese moderato come Abu Mazen può ritenersi persino ottimista per il solo fatto che Obama sia andato a trovarlo a Ramallah - anche perché l'alternativa è un McCain che con i palestinesi nemmeno ci vuole parlare; poi bisognerebbe anche verificare quanti palestinesi ancora si sentano rappresentati da un moderato come Abu Mazen, dopo vent'anni di prese in giro: ma è un altro discorso.
Torniamo alla dichiarazione di Obama. Ce la leggo soltanto io, tra le righe, una certa arroganza? Da una parte il candidato sa già dove vuole arrivare: Gerusalemme Centro agli israeliani, e Ger. est ai palestinesi. Però, attenzione, quello è solo lo "status finale" a cui arrivare dopo tanti negoziati. Come a dire: discutete pure, basta che alla fine si arrivi alla conclusione che ho proposto io. In pratica si chiede ad Abu Mazen (e solo a lui: se Hamas vince di nuovo le elezioni, ciccia) di star seduto, stringer la mano al premier israeliano di turno e sorridere per altri 2-3 anni, per arrivare a un risultato che magari i consulenti di Obama hanno già messo nero su bianco in un dossier.

D'altro canto è abbastanza ingenuo leggere una dichiarazione così dal punto di vista dei palestinesi. In questo momento piacere ad Abu Mazen è l'ultimo problema di Obama. Il dieci per cento dell'elettorato americano dà l'impressione di credere alle storie che lo dipingono come un musulmano travestito da cristiano. In una situazione del genere un viaggio in Israele gli serve soprattutto per mettere una solida pietra sui pettegolezzi, per farsi inquadrare con la quippah in testa, per rassicurare gli israeliani, e soprattutto gli americani che a Israele ci tengono. Che poi ci possa scappare una cauta apertura ad Abu Mazen, è quasi miracoloso. Insomma, la dichiarazione di Obama vuol dir poco, ma poco è meglio di niente.

Forse, più che la dichiarazione, il problema è l'articolo che ci sta intorno; e ancora più dell'articolo, il titolo che ci sta sopra. Quando si critica il messianismo di Obama, si intendono casi come questi: non c'è un politico al mondo che a proposito della Palestina non si sia riempito la bocca della parola "pace". Ma se lo dice Obama, sembra che "pace" da parola debba diventare al più presto realtà. Obama dice "pace", e improvvisamente i palestinesi smettono di avere motivi per farsi esplodere o dirottare i bulldozer. Conta poco o niente che la "pace" proposta da Obama risulti alla maggior parte degli abitanti dei Territori un ultimatum inaccettabile; l'importante è accreditare Obama come uomo nuovo in possesso di soluzioni. Anche se a ben vedere sono soluzioni che rischiano di sorpassare a destra quelle di Bush. Ma Bush è il passato: Obama è il nuovo, e ciò che è nuovo è buono.
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Masters of fotti-e-chiagni

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L'ospite indecente

Una cosa che farei, se avessi costanza, è istituire il premio chiagni-e-fotti della settimana. Quindici giorni fa il candidato unico era il povero Joseph Ratzinger, ingiustamente emarginato dai professori della Sapienza e costretto a riparare su una diretta domenicale in mondovisione; la settimana scorsa avrebbe vinto a man bassa Totò Cuffaro, anche lui arbitrariamente escluso da una trasmissione, anzi da un processo tv, (conta nulla che fosse stato invitato, e che avesse deciso di non presentarsi, che in quella trasmissione fosse dato ampio spazio a un compagno di partito che lo difendeva a testa alta, e che in Italia ci siano almeno altri 5 canali nazionali a cui Cuffaro può rivolgersi per replicare). Tutta gente a cui viene negato il sacrosanto diritto di esprimersi, insomma. E questa settimana? Beh, anche questa settimana un candidato ce l'avrei. Si tratta tuttavia di un pezzo grosso, un maestro del chiagniefotti, uno che ne ha insegnato l'arte un po' a tutti, insomma, qualcuno avrà capito che sto parlando proprio di Lui: lo Stato d'Israele. Ma non abbiate paura. Al massimo accendete i rivelatori di antisemitismo, vediamo se bippano e quanto.

Personalmente sono contrario al boicottaggio contro la Fiera del Libro di Torino, che ha invitato lo Stato d'Israele come ospite d'onore. Non per le motivazioni serie espresse qui e là sul Manifesto e la Stampa, che onestamente non mi sono neanche preso la briga di leggere. La distinzione, cara a Bertinotti e al suo Partito, tra Stato d'Israele e governo d'Israele, la capisco benissimo... ma purtroppo mi sono antipatici entrambi; non ho nulla contro gli scrittori israeliani, invece, molti dei quali sono senz'altro validissimi: io in effetti se fossi stato una Fiera del Libro avrei invitato loro, e non lo Stato che non rappresentano.

In generale, poi, l'idea di invitare uno Stato come ospite di onore mi fa sorridere – cos'è esattamente uno Stato? Come fa ad andare a Torino? Stavo pensando già di scriverci un raccontino buffo, con lo Stato d'Israele che sale sull'aereo, e dopo il decollo abbassa subito lo schienale sulle ginocchia della Giordania, ruba la bottiglietta d'acqua della Palestina, s'impossessa del bagaglio a mano del Libano, ecc. ecc.... poi mi sono reso conto che per essere obiettivo avrei dovuto anche far litigare gli altri passeggeri, con l'America che fa lo steward, la Nato in cabina di comando, e man mano che si allargava la metafora diventava sempre più pesante; non solo non avrei fatto ridere nessuno, ma in compenso sarei finito nell'homepage di qualche forum neonazista, o peggio ancora, da Rolli – alla larga.

Invece, leggendo Lia ho scoperto una cosa a cui i quotidiani non hanno dato molto risalto, mi pare (ma onestamente ho cercato poco), e cioè che fino a qualche mese fa l'ospite d'onore avrebbe dovuto essere l'Egitto. Per carità, l'idea dello Stato d'Egitto ospite d'onore mi fa sorridere quanto lo Stato d'Israele, tanto più che anche l'Egitto le sue belle magagne ce l'ha. Il punto è che dietro queste ospitate c'è tutta una dinamica diplomatica che ignoravo: qualche mese fa era stata l'Italia ad essere ospite d'onore alla fiera del Cairo. Lo scambio di favori era talmente implicito che sul sito della casa editrice istituzionale egiziana si parlava dell'Egitto come del “guest of honour in the Turin Book Fair 2008”. Ora, è vero che solo gli stupidi non cambiano idea, ma un voltafaccia internazionale è una cosa che potendo si dovrebbe evitare. Per noi probabilmente cambia poco, ma per gli egiziani (e per gli arabi in generale) no. Tanto più che il famoso anniversario della nascita d'Israele è una ricorrenza che divide più che unire – e continuerà a dividerci finché non ci sarà una vera pace, bisogna dirlo. Ecco, tirare un bidone allo Stato d'Egitto per fare posto allo Stato d'Israele non mi sembra un atto di pace. Piuttosto un atto di guerriglia... ma no, guerriglia è ancora parola troppo nobile, diciamo piuttosto guerretta, la guerricciola di chi confonde la pace con la pigrizia, e di conseguenza si adatta quasi sempre alla pace del più forte.

Detto questo – e guadagnata un'altra discreta quota di punti antisemitismo – ribadisco la mia posizione contraria al boicottaggio. Non per simpatia per gli scrittori – che mi dovrebbero essere simpatici o antipatici per le loro idee, e non per la scritta che hanno sul passaporto (vale per gli israeliani come per gli statunitensi e gli uruguagi). No, per un motivo più terra-terra: vorrei evitare l'effetto-Ratzinger. Per quel poco che conosco il Signor Israele, so che basterebbe un buu! di troppo per farlo stare davvero a casa. E da lì in poi il piagnisteo degli organi di stampa e tv contro la lobby islamo-fascista-de-sinistra che tresca con Ahmadinejad e impedisce al Sig. Israele di recarsi alle libere Fiere del Libro sarebbe intollerabile. Perché credetemi, il Papa e Cuffaro sono pagliacci al confronto. Nessuno fotte e chiagne come Mr. I. Per quel che mi riguarda, vada a Torino, si prenda il suo stand – e anche quello del Libano, già che c'è, giuro che non interverrò. Ho già guadagnato abbastanza punti antisemitismo per vincere un servizio di posate con il logo della Wehrmacht, cosa posso pretendere in più dalla vita?
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ci vorrebbe un Nemico

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(Avvertenza: questo pezzo contiene molte informazioni imprecise, perché questo è un pezzo sulle informazioni imprecise. Non ci tiene a dire "la verità" su Iraq o Afganistan: tiene solo a far notare quanto poco sappiamo su Iraq o Afganistan).

Adesso tutti, sull’Afganistan, dovranno farsi un’opinione. Facciamo la guerra? Dialoghiamo coi talebani? Ce ne torniamo a casa e facciam finta di nulla? Ecc ecc.
Il problema è che dell’Afganistan nessuno sa niente.

Qui non è questione di informazione superficiale: l’informazione, semplicemente, non c’è. Non ci sono giornalisti, né da una parte né dall’altra. Possiamo avere mille, centomila opinioni, possiamo aggiornare i nostri blog o guardarci un bel programma di approfondimento: il problema è che non c’è nulla da approfondire, perché al mulino manca l’acqua, e l’acqua la portano soltanto i reporter. Nel giorno in cui siamo tutti felici perché Mastrogiacomo è tornato, vale la pena di notare questa cosa: ora laggiù non c’è nemmeno lui, ed è difficile pensare che qualcuno segua le sue tracce per parecchio tempo.

È un discorso che va esteso anche all’Iraq. Ogni giornalista, ogni cooperatore che è tornato felicemente a casa, è un giornalista o un cooperatore in meno sul territorio. Da quattro anni a questa parte le informazioni che abbiamo su questi due Paesi sono diventate sempre più confuse e frammentarie – il problema è che siamo troppo indaffarati, distratti o partisan per accorgercene. Del resto diamo per scontato di vivere in una piccola sfera dove le informazioni sono ovunque immediatamente accessibili. Sbagliato: Iraq e Afganistan sono due buchi nel medioevo. Non passano più notizie. Nemmeno ai tempi del Vietnam era successo qualcosa del genere: due grandi nazioni scomparse dalla rete mondiale dell’informazione.

Pensate a questa semplice evidenza: non sappiamo contro chi stiamo combattendo. Per dire, gli americani in Vietnam lo sapevano. I russi in Afganistan lo sapevano. Oggi non lo sappiamo. Perché non vogliono dircelo? Oppure non lo sanno proprio?

Proviamo a ragionare da agit-prop: dobbiamo convincere il crasso Occidente a picchiare duro in Iraq e in Afganistan. Ci serve per prima cosa un Nemico. Osama Bin Laden andava benissimo, salvo che da qualche anno in qua comincia un po’ a puzzare, il cinquantenne ex-dializzato nascosto in una caverna. Continuare a insistere sul fatto che sia vivo, a 2-3 anni dall’ultimo filmato, è quasi un boomerang. E infatti sulla carta stampata si comincia timidamente a darlo per morto. Ma se muore, bisognerà trovare un altro Nemico, ugualmente cattivo ed emblematico, e non è semplice.

Qualche anno fa ci fu l’ondata dei Numeri Due. Il Numero Due era un modo abbastanza elegante per scalare dal concetto di “Bin Laden è il Male” a quello di “Il Capo di Al Quaeda in carica è il male”. Io ho onestamente perso il conto di quanti Numeri Due di Al Quaeda gli americani abbiano catturato e processato. Verso il 2004 la carica di Numero Due si è cristallizzata su Al Zarqawi, un tale che ai tempi non lavorava nemmeno nella stessa organizzazione di Bin Laden, ma era comunque il personaggio più sporco e cattivo in circolazione. Tagliava le teste occidentali, metteva gli snuff in rete, aveva ormai le dimensioni del mito.

Intorno ad Al Zarqawi si è detto di tutto. Proprio come Bin Laden, che fino a un certo punto si dava per dializzato, e poi miracolosamente è guarito, anche Al Zarkawi all’inizio sembrava uscisse e rientrasse dall’Iraq con una gamba finta (generoso regalo di Saddam Hussein) – finché a un certo punto non gli è ricresciuta. Viene in mente il personaggio di Gambadilegno: lo sapete perché si chiamava così? Nelle prime strisce americane aveva una gamba di legno, ma i disegnatori perdevano troppo tempo a disegnarla, e soprattutto non si erano mai messi d'accordo su quale gamba fosse. Finché Walt Disney o chi per lui decise di montargli un “modello nuovissimo” di gamba in tutto e per tutto uguale a quella vera: problema risolto. I Nemici degli americani hanno un po’ la consistenza dei cattivi da fumetti, o delle action figures smontabili.

A dicembre del 2004 Al Zarqawi a furia di decapitare occidentali si era fatto una fama talmente cattiva che Bin Laden in persona è resuscitato da qualche grotta di Tora Bora per nominarlo suo luogotenente in Iraq. Bene. Anzi no, perché a differenza di Bin Laden, Al aveva un difetto: era vivo e operante in Iraq. E se sei vivo e operante, prima o poi qualcuno ti cattura (lo stesso Zarqawi pare non fosse molto popolare nemmeno tra gli iracheni, che del resto ha massacrato a centinaia). E quando ti cattura, poi tocca inventarsi un nuovo Numero Due. Ma a questo punto i lettori occidentali cominciano a spazientirsi: sono abituati a trame di telefilm più verosimili (maledetto intrattenimento di qualità).

Dalla cattura in poi di Al Zarqawi non s’è più capito niente – non che prima si capisse molto. A un certo punto nell’autunno del 2005 Falluja è diventata la roccaforte dei sunniti. C’è stata una battaglia terribile, con armi al fosforo, Falluja è stata espugnata, e poi? E poi evidentemente non era la roccaforte, visto che la guerra coi sunniti è proseguita. O no? Giuro, ho provato a informarmi, ma non ci si capisce nulla. I giornalisti a Bagdad e Kabul e tirano i pastoni con quel che possono. Un’espressione ricorrente, nell’identificare il Nemico, è “un mosaico di formazioni”. Quando non è un mosaico è una mescolanza o un caleidoscopio o un ammasso o una pletora o qualunque cosa. Mai un nome. Mai un progetto politico o nazionale. Mai la faccia di un vero Nemico.

Ci servirebbe. Abbiamo bisogno di una faccia. E abbiamo bisogno di sapere se è una faccia nemica o no. Prendiamo quegli altri simpaticoni degli sciiti. Sono nostri alleati o no? Non si sa. Quante volte s’è visto il faccione di Muqtada-al-Sadr. È un nemico? O un amico? L’impressione è che l’ufficio propaganda se lo tenga come jolly, a seconda del momento. Ci sono fasi filo-sciite e fasi in cui gli sciiti ci stressano, evidentemente, e a seconda del momento il gattone sciita diventa un nemico o un alleato di riguardo.

Gli effetti sono paradossali: in gennaio in Occidente abbiamo assistito all’esecuzione di Saddam Hussein per mano di un tribunale legittimo, giusto? Ma in Medio Oriente hanno assistito all’esecuzione di Saddam Hussein per mano di un boia sciita, e circola voce che l’abbiano appeso davanti a Muqtada-al-Sadr. Ognuno ha la sua verità. Persino Camillo, che tra tanti difetti non aveva l’incoerenza, a fine anno si è messo a parlar bene dell’ayatollah Al Sistani. Per carità, ognuno dosi come vuole le sue idealità col realismo: ma partire dall’esportazione della democrazia per arrivare, in capo a tre anni, agli ayatollah, mi sembra abbastanza triste.

Quanto a me: io qualche anno fa avevo una certa idea, su Iraq e Afganistan. Da lì in poi non l’ho cambiata; non per coerenza, ma perché non ci ho più capito nulla. Se mi dimostrassero con dati alla mano che a questo punto è meglio restare là, sarei disponibile a cambiare idea. Penso che le idee abbiano una loro durata, come la biancheria; ogni tanto cambiarle è doveroso.

Il problema è che le informazioni, semplicemente, non arrivano: nessuno si attenta più ad andarle a prendere. Onore a Mastrogiacomo. Tutto il poco che sarà riuscito a portare indietro da questa esperienza, è oro puro per noi.

Il resto è fuffa, teatrino delle ideologie. “Stiamo combattendo contro i talebani”. “Dobbiamo dialogare coi talebani”. Entrambe sono opinioni rispettabili, il problema è che non hanno senso. La parola “talebano” non ha senso. I talebani del 2000 erano diversi da quelli del 2007. Quelli, per dire, pare avessero vietato la coltivazione del papavero da oppio per motivi religiosi - con conseguente crisi mondiale dell'offerta di eroina. Questi invece con l’oppio ci comprano le armi. Ne producono talmente tanto che la quotazione dell’eroina è ai minimi storici. Tra un po’ ai nostri ragazzi cominceranno a offrire schizzi gratis che nemmeno nel ’78. Un buon motivo per restare laggiù? O per andarsene? E chi lo sa? Non ne sappiamo nulla.

Verrebbe voglia di dire “Sì, restiamo”, giusto per ricordarci che l’Afganistan esiste. Bisognava che sequestrassero Mastrogiacomo perché in tv e sulla carta stampata tornassero notizie di attentati, stragi, combattimenti. Se ce ne andiamo, c’è il rischio oggettivo di dimenticarcene. Ma è solo un’opinione come un’altra. Ci scambiamo opinioni, in mancanza di informazioni.
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fioretti per l'anno nuovo, 1

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Un sano colpo alla botte

Numero uno, non si sfottono più i Neoconi. Basta. Finito.
Aveva un senso nel Duemilaetré. Continuava a essere divertente nel Duemilaequattro. Nel Cinque era trito, ma funzionava. Ma nel Sette basta, ormai è roba da Vanzina.

Eppure la tentazione c’è, voglio dire, come si fa? Basta un clic, e ti trovi davanti Camillo stizzito perché si sono permessi di mettere in dubbio l’intelligenza di George W, uno che si è laureato in STORIA a Yale. Scritto proprio così, tutto maiuscolo, perché si capisca che è Yale, mica un corso di ricamo. No, dico, provatevi voi a laurearvi in STORIA a Yale. E "con voti migliori di John Kerry” (John chi?)

Sì, sì, certo, ma è facile adesso. Ben altra cosa quattro anni fa. A quel tempo tutto sommato i neoconi erano il massimo. Viaggiavano col vento il poppa, avevano l’aria di chi risistema la Storia con una giocata. Era un bluff, ma è così facile, visto dal fosso del senno del poi. In realtà uno come Camillo è da apprezzare per la coerenza. È lì sulla linea da sei anni, e non si muove di un centimetro. Vi ricordate quando lanciò l’islamofascismo? Beh, lui è ancora lì: Con gli islamofascisti non si discute! Averne, di uomini come lui.

Io dico che con l’anno nuovo bisogna iniziare a preoccuparsi di una razza diversa. È tempo di dare un sano colpo alla botte.
Perché a furia di dire che gli americani hanno sbagliato tutto, qui si perde il lume. Tutti questi festeggiamenti per la tremillesima bara a stelle e strisce sono repellenti. Tutta questa intelligenza col nemico – ehi, guardate che è pur sempre un nemico. Un fanatico. Il migliore c’ha la rogna.

Prendete al Sistani. Ce l’abbiamo col Papa perché non vuole i Pacs; provate a chiederli ad al Sistani, che proibisce di parlare alle donne non sposate. No, giusto per mantenere le proporzioni. Perché tra un po’ rischiamo di farne un santino, di questo al Sistani. C’è persino un giornalista italiano che lo ha già nominato Uomo del 2007 – al Sistani, non so se ci siamo spiegati.
Che giornalista? Mah, uno di quelli dal dialogo facile con l'islam... uno senza permalink, maledizione. Aspettate, eccolo qui.
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- al mondo ci sono persone

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Al mondo ci sono persone che per queste stronzate muoiono


Pensavo di non avere più niente da aggiungere, poi mi è venuta in mente una cosa:

che tra qualche mese, quando si placherà anche l'ondata di assalti alle ambasciate (come si placano bene o male tutte le ondate, i roghi d'auto in Francia e i sassi in autostrada), qualcuno farà i conti delle vittime e scoprirà che al novanta, forse al novantanove per cento sono musulmani. Islamici. Forse integralisti. Forse solo incazzati. Comunque morti, il che per me chiude il problema.

Noi occidentali abbiamo la tendenza a vederci come parte lesa, in questa storia (e non solo in questa storia). Ma se fossimo davvero così occidentali, se volessimo occidentalmente giudicare la questione in termini di torti fatti e subiti, ci accorgeremmo in un istante che non è così. Certo, abbiamo anche noi avuto delle perdite. Tutte quelle ambasciate, quei consolati, immobili di pregio, spesso in lotti centrali – lo dico senza ironia, è un danno economico grave. Senza parlare di ciò che per molti è ancor più importante, vale a dire l'affronto alla nostra fondamentale libertà di raffigurare nelle vignette tutte le facce che vogliamo, anche quelle dei profeti altrui.

Dall'altra parte, però, sono morti decine (centinaia?) di persone. Islamiche. Ma adesso che sono morte, sono solo persone. Certo, so benissimo che il determinismo è molto più complesso. Non è che un libico muoia perché Calderoli indossa una maglietta – no, per l'amor di Dio. Perché il libico muoia sono necessarie tante variabili indipendenti da Calderoli. Un popolo povero in un Paese ricco. Un'ex colonia, una dittatura militare che si destreggia alla benemeglio coi grandi della terra senza neanche affettare un po' di democrazia (per i precedenti terroristici è bastata pagare la supermulta). Insomma, miseria, isolamento, risveglio del fondamentalismo islamico, ecc. ecc. Questi sono i veri problemi, altro che Calderoli.

E tuttavia, per quanto indipendente, la variabile Calderoli c'è. E funziona. Calderoli indossa, e un libico muore. D'accordo, non è colpa sua: ma un libico è morto. D'accordo, ha il diritto d'indossare tutte le magliette che vuole, ma un altro libico è morto (e certo, hanno anche bruciato l'ambasciata, è seccante).
Un giornale pubblica vignette: ne ha la facoltà, ma moriranno delle persone. È un ricatto umanitario? È un ricatto umanitario. Io, se fossi il direttore responsabile (nel vero senso della parola: direttore responsabile), cercherei di non scatenare la mia variabile indipendente, e poi alle variabili degli altri ci penseranno gli altri. Non posso convertire l'Islam alla tolleranza in 24 ore (o in 4 anni di guerra al terrore). Del resto, non riesco neanche a cambiare la testa a chi vota Calderoli. Ma se posso fare qualcosa per evitare che muoiano persone, io lo faccio. Mi gioco la mia libertà d'espressione? Forse sì. Però ho fatto quel che potevo per evitare che morissero persone.

Citano tutti Voltaire, ultimamente. Simpatico, ma non è il mio francese preferito. Da ragazzino ne lessi un altro che mi colpì molto, per una frase che suonava più o meno così: può darsi che nell'assurdo in cui viviamo, l'uomo non possa fare altro che cercare di ridurre aritmeticamente il dolore del mondo. Non vi sto a dire chi è, perché è probabilissimo che abbia sbagliato autore e citazione, e poi tutto sommato non importa. Quel che importa è che io ci credo. Per cui ritiro tutti i pipponi sulla cultura del rispetto che vi ho propinato fino a oggi. Il mio è semplicemente un problema di coscienza. Non sopporterei che persone morissero anche per causa mia. Anche se sono fanatici, fondamentalisti, brutti, sporchi e cattivi, e bruciano le ambasciate. Tutto questo ha un'importanza molto relativa per me perché, l'istante dopo essere morti, sono soltanto uomini.
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- generazione di fenomeni, 2

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(Prossimamente, penso che scriverò roba più leggera).

Ma sul serio: se io sono veramente ateo, se credo che Dio sia una semplice impostura, come posso sopportare che miliardi di persone intorno a me vivano in questa impostura? Come posso 'tollerare' una menzogna così diffusa e capillare? No, non posso. Devo gridare ai quattro venti che Dio non c'è. Ma allora la mia condizione non è molto diversa da quella di chi crede che un Dio ci sia, uno o trino, o senza volto, o con la proboscide, e che parimenti non può tollerare di avere la verità rivelata in esclusiva: deve gridarla ai quattro venti. Davvero dovrei stare zitto e "tollerare" che gli impostori e gli ingenui intorno a me urlino qualcosa che ritengo sbagliata?

Le risposte che accludo valgono solo per me – tra l'altro, adesso che mi viene in mente, io non sono ateo. Ma cambia poco.

Perché non posso non rispettare le religioni degli altri (anche se sotto-sotto mi sembrano coglionate)

1) Perché non convincerò mai nessuno ostentando la superiorità delle mie ragioni e umiliando le sue – come ben sa chi ha un blog. È mai servito a qualcosa scrivere che Berlusconi è un pagliaccio, e chi lo vota è un fesso? Allo stesso modo, l'approccio "Dio non esiste, smetti di crederci, coglione" non funziona. Dio, come Berlusconi, si sconfigge seminando pazientemente dubbi in chi ci crede. Ma per seminare occorre tempo e serenità. Occorre ostentare rispetto per l'avversario mentre si avvelenano i suoi pozzi. Occorre essere semplici come colombe e astuti come serpi (buona, questa. Dove l'ho già sentita?)

2) Perché non posso convertire tutti. Semplicemente. Il mondo non può permettersi sei miliardi di atei. Se l'ateismo è quello che intendo – un ateismo rigoroso, razionale, scientifico – dobbiamo ammettere che esso è destinato a rimanere ancora a lungo un lusso. Un appannaggio delle élites. Mi rendo conto di dire una cosa antipatica.
Per Marx la religione era il noto oppio dei popoli. Ma i popoli erano destinati a liberarsi e a impadronirsi dei mezzi di produzione: una prospettiva di fronte alla quale l'oppiomania appariva come un palliativo inutile e dannoso. Perché perder tempo in paradisi artificiali quando il Sol dell'Avvenire sta apparendo all'orizzonte? Non c'è bisogno di spiegare che la nostra prospettiva è molto diversa.

Noi sappiamo che la Storia non ci sta preparando nessuna rapida palingenesi. Sappiamo che la scienza, la medicina e l'economia, con tutti i loro progressi, non riescono a impedire che miliardi di persone vivano male: al punto che c'è forse più sofferenza umana sulla terra oggi di quanta ce ne sia mai stata in passato.
Sappiamo che di fronte al dolore la scienza è troppo spesso impotente. Viviamo in un'epoca di diagnosi rigorose e cure imperfette. La nostra scienza funziona benissimo quando deve spiegarci di che malattia stiamo soffrendo, o perché il nostro Paese è in recessione. Funziona assai peggio come erogatrice di speranze. A tutt'oggi non ci sono ricette per gran parte dei mali che ci affliggono, fisici e morali. Forse vale la pena di guardare all'oppio con un occhio diverso.

Le grandi religioni, quelle che azzerano il calendario, si sono sempre affermate in periodi di crisi simili a questo. Prendiamo il cristianesimo: se ha avuto lo straordinario successo che sappiamo, è perché ha individuato un "mercato" che nessun prodotto era più in grado di soddisfare. Il mercato della sofferenza e della disperazione – e quando dico "mercato", non parlo per metafore. Dal III secolo in poi, le comunità cristiane hanno portato alla luce un soggetto economico che prima non esisteva: il bisognoso. In un mondo che ignorava (oltre che la luce elettrica e la penicillina) qualsiasi forma di Welfare State, i cristiani iniziarono a raccogliere fondi con lo scopo di destinarli a vedove, orfani, perseguitati, poveri. In seno allo Stato militare (che tassava i cittadini ormai quasi esclusivamente per mantenere burocrazia ed esercito), nasceva un'idea di Stato assistenziale. Non è curioso che la fratellanza musulmana (che in Palestina si chiama Hamas) sia nata e cresciuta nei Paesi arabi nella stessa maniera? La fratellanza sostituisce (male) l'assistenza sociale in Paesi in cui i poveri sono abbandonati a loro stessi. Tutto questo è giusto? No. Ma tutto questo può essere cambiato rapidamente?

Se io sono ateo, forse è perché me lo posso permettere. Ho un buon lavoro, che dà un senso a parte della mia vita; e una famiglia abbastanza confortevole. Se soffro di qualcosa, posso acquistare le medicine che mi servono. Posso anche investire parte della mia vita e dei miei guadagni in divertimenti. Insomma, non ho così bisogno di Dio. Così sono ateo. Perché sono più intelligente di altri? O perché sono un privilegiato?
E a chi non è altrettanto fortunato – o intelligente – cos'ho da proporre? Posso garantire un lavoro a tutti i poveri della terra? Una famiglia confortevole? Medicine a prezzi equi? Divertimento occidentale? No, non posso. Se sto bloccando le frontiere, è evidente che non ci sono abbastanza risorse per tutti. Ma allora, cosa ho da proporre ai poveri della terra, di meglio del caro-vecchio-oppio-dei-popoli?

3) Tutto questo, gli impresari delle religioni lo sanno. Dirigono onorate società che stanno sul mercato da migliaia di anni. Si vede che in qualche modo funzionano. Non meritano rispetto, almeno per questo? Vendono una cosa di cui c'è un gran bisogno: la speranza. Poi magari alla fine si scopre che è un pacco – ma per ora non c'è molto di meglio sul mercato. So che è un discorso antipatico.
So che dovrei proporre un orizzonte diverso, in cui tutti ci ribelliamo all'oppio e alle false credenze, e ci diamo da fare per costruire non già un mondo migliore, ma la speranza di un mondo migliore. Purtroppo, se devo essere onesto, non mi sembra di vivere così.
Mi sembra di vivere in un regime di moderata disperazione, che curo con quello che trovo sul mercato occidentale: qualche soddisfazione sul lavoro, una vita domestica abbastanza tranquilla, la mia bella pagina web per la libertà d'espressione… e poi c'è l'intrattenimento. Massicce dosi d'intrattenimento – questo è l'oppio nostro. Persino quell'ateo fiero che è Gianluca Neri, secondo me, sarebbe pronto a immolarsi per il suo decoder. E guai a dirgli che è roba da rincoglioniti – lui risponderà che i fenomeni mediatici vanno studiati, criticati, capiti. Ebbene, con le religioni il discorso è lo stesso. Sono fenomeni mediatici millenari, che tutto meritano fuorché d'essere snobbati: vanno studiati, criticati, capiti. Se non altro, perché hanno funzionato per centinaia di generazioni – i reality show non dureranno altrettanto. Non credo, perlomeno.
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- libertà, quanti crimini in tuo nome

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Il Male esiste. Ma anche la Stupidità non scherza.

Il fanatismo islamico esiste. E peggiora, di anno in anno. Non credo di dare a nessuno una notizia.
Ma tocca scriverlo lo stesso, perché altrimenti sembra di voler minimizzare il problema. No. È proprio che mi pongo il problema, proprio come se lo pone la Fallaci (anche se lei guadagna di più). Il fanatismo islamico esiste e fa proseliti. Ogni anno. E se intendiamo continuare a pubblicare vignette che mostrano il volto di Maometto, quest'anno magari ne farà parecchi di più. Naturalmente abbiamo il diritto di farlo. Ma a chi conviene esattamente? A noi o ai terroristi?

Com'è fatta la società araba? In cima, ci sarà bene una crosta sottile di laici. In profondità, alcuni nuclei tossici di integralismo religioso. Tutto il resto è un'amalgama di persone più o meno ligie all'Islam e ai suoi Cinque Pilastri.
I nuclei tossici più o meno li conosciamo. Ormai siamo dei veri esperti di integralismo: ci sono i film, i libri, e tutto. Ma l'amalgama, cos'è? L'arabo-massa, chi è? Ne sappiamo poco.
Cerchiamo almeno di raffigurarcelo. Diamogli un nome. Omar (È il più facile da scrivere).
Chi è Omar?
È il mio alter-ego sull'altra sponda del mediterraneo. Cos'ho io che lui non ha? Parecchie cose. Malgrado i soldi a pioggia arrivati (non dappertutto) col petrolio, Omar è più povero di me e non ha una vera rappresentanza politica. Dunque è arrabbiato. Se ha accesso a un satellite, ha la possibilità di vedere che dall'altra parte del mediterraneo c'è un mondo più ricco e democratico. È possibile che sia anche invidioso. Nei fatti, molti coetanei di Omar si sottomettono a esperienze umilianti e costose pur di approdare nei nostri Paesi: segno che l'Occidente è ancora un modello ammirato. Ma se Omar vuole restare? Non possono andare via tutti.
Fino a vent'anni fa, chi restava poteva coltivare la speranza che il Maghreb e il Medio Oriente raggiungessero lo stesso tenore di vita dell'Occidente. Poi quella speranza si è spenta (proprio quando cominciavano ad arrivare i primi canotti da noi). Non è stato un perfido mullah a spegnerla. I perfidi mullah si sono semplicemente inseriti nelle crepe di una disperazione. Quelli che negli anni Sessanta erano i Paesi in via di Sviluppo, sono rimasti bloccati sulla via dello Sviluppo. L'integralismo è ricominciato dalla constatazione – rabbiosa – che i cancelli d'oro del benessere occidentale erano chiusi. Da cui la necessità di ripiegare su un'altra via, un'altra speranza: l'Islam. Proprio mentre la nostra società si secolarizzava definitivamente, quella araba si è irrigidita.
Naturalmente possiamo esecrare questa involuzione. Ma la religione non è il problema: la religione è un sintomo del problema. Nelle nostre società le fedi – tutt'altro che in crisi – sono funzionali a uno scopo preciso: la gestione della sofferenza. Più le cose vanno male, e più esse si ritrovano a raccogliere vittime degli ingranaggi sociali arrugginiti, dando loro uno scopo di vita. Non funziona così soltanto nei Paesi arabi.

L'Islam, nei suoi fondamentali, è una religione semplice e astratta. Esiste un solo Dio, e non è raffigurabile. Perché è, irrimediabilmente, 'altro' dall'uomo. Maometto, il fondatore, temeva l'idolatria annidata in figure e statuette. Adorare una figura di Dio non è adorare Dio. Se lascio liberi i miei fedeli di costruirsi delle immagini, come possono essere sicuri che i loro figli non adoreranno soltanto le immagini? Non è una sciocchezza, questa. Pensiamo soltanto al nostro culto dei santi, con le statue che vanno in giro e fanno i miracoli. Pensate al culto della Madonna, che a seconda della statua cambia denominazione e facoltà miracolosa (Madonna del Rosario, del Carmelo, di Lourdes, Immacolata Concezione… proprio come le dee pagane: Venere Victrix, Venere Felix…) Per l'Islam (ma anche per Lutero) quella è tutta paccottiglia da idolatri. Certo, i musulmani non vengono a dircelo in faccia. Che io sappia non pubblicano vignette sulla stupidità dei cattolici idolatri. Magari ne avrebbero il diritto. Ma non lo fanno.

L'idea della non raffigurabilità non è un'invenzione islamica. Già il Dio degli Ebrei non amava essere visto, e nemmeno pronunciato. Persino i cristiani non erano tutti d'accordo sulla libertà di raffigurazione: un secolo dopo Maometto, gli imperatori bizantini (cristiani) ordinarono la distruzione di icone e bassorilievi (cristiani).
Ma in Occidente la raffigurazione ha vinto. Ha vinto perché il Dio dei cristiani è un'entità molto più umana: ha fatto l'uomo a sua immagine, e poi si è incarnato in lui. Tutto questo ha portato non solo ad alcune degenerazioni, ma anche alla nascita di una cultura squisitamente figurativa. Per molti secoli in Italia Cristo ha dovuto esprimersi in figure – visto che i fedeli non sapevano leggere (o forse non imparavano a leggere perché tanto c'erano le figure?) Ci sono stati i misteri medievali, in cui gli attori impersonavano le figure della Bibbia (e spesso il risultato doveva risultare parodico, che lo volessero o no). C'è stata la pittura, che a partire da Giotto ha inserito Cristo e i Santi in cornici sempre più realistiche. C'è chi dice che lo stesso realismo ottocentesco e novecentesco abbia una radice nelle rappresentazioni figurate che dal medioevo in poi sono diventate sempre meno divine e sempre più umane.

Nel frattempo, sotto il mediterraneo, l'Islam produceva una cultura figurativa totalmente diversa. Per i musulmani la mediazione tra Dio e l'uomo non avveniva mediante l'immagine, ma la parola: mentre noi sviluppavamo il realismo figurativo, loro perfezionavano la calligrafia e l'arte astratta. Col tempo, il divieto di raffigurare Dio si è esteso anche al suo profeta, Maometto. Ciò non significa che non esistano, già dai primi secoli, raffigurazioni del profeta con volto e barba (via Griso); ma sono rimaste minoritarie (del resto anche noi avevamo quadri che ritraevano gli apostoli intorno alla Madonna morta: poi un Papa ha dichiarato che la Madonna era immediatamente volata in cielo al trapasso, e quei quadri non li abbiamo fatti più).

Tutta questa digressione perché continuo a sentire e leggere persone che non riescono a capire la pietra dello scandalo: in fondo, dicono, sono solo una dozzina di vignette, né molto cattive, né molto divertenti. Ma il problema non è che alcuni ritratti del profeta potrebbero risultare razzisti e, sì, antisemiti. Non è nemmeno la battuta. Il problema è la raffigurazione. Raffigurare Maometto non è come raffigurare Cristo: da una parte ci sono duemila anni di raffigurazioni, dall'altra mille anni di divieti. È così difficile da capire, la differenza? Possiamo rifiutare di capirla. Ne abbiamo il diritto. Possiamo continuare a pontificare di cose che non sappiamo. Ma ci facciamo una bella figura?

Torniamo a Omar. Abbiamo detto che non è un integralista. È probabile che covi un amore/odio per l'occidente. L'Islam è la sua cultura, e l'Islam proibisce la raffigurazione del volto di un profeta. Può darsi che la sharia contempli divieti molto odiosi; ma questo, francamente, non lo è. È un punto d'onore teologico. Ciò che fa l'Islam una religione diversa dalle altre è l'enfasi sul monoteismo.
Quest'arabo-massa, per quanto possa sembrarci strano, si sente minacciato. Proprio come noi, che dall'11 settembre ci sentiamo assediati dall'Islam. Nel 2001 gli anglo-americani (che dai tempi del Kuwait hanno basi in Arabia Saudita) hanno invaso l'Afganistan; due anni dopo l'Iraq. Ora c'è la crisi in Iran. Per non parlare della questione palestinese, che in molti regimi è usata come valvola di sfogo sociale: si organizzano parate antisioniste per prevenire spontanee manifestazioni antigovernative. Non voglio entrare nell'annoso dibattito su chi abbia iniziato, se noi o loro. Di sicuro non abbiamo iniziato io o Omar. Ma cosa importa? A questo punto anche io e Omar ci sentiamo in guerra. E nessuno di noi è convinto di vincerla. Io vedo attentati in tutto il mondo civilizzato, e Omar vede gli arabi sconfitti sul campo.

Ed ecco che arriva questa brutta storia delle vignette.
Omar non è un integralista. Quindi dovrebbe capirci. Capire che quello che per lui è un grave affronto alla religione, i danesi lo hanno fatto senza malizia, in omaggio al loro dogma (altrettanto religioso) che dice Libertà di Espressione a Ogni Costo. Dovrebbe tollerare le nostre idiosincrasie, Omar; la nostra necessità insopprimibile di dire cacca a Gesù e piscia a Maometto, come se fosse davvero satira, come se fosse almeno divertente.
Certo, se fosse gentile, educato, rispettoso delle culture diverse dalla sua, Omar dovrebbe reagire in questo modo.
Però tutta questa è solo melassa politically correct. Perché mai Omar dovrebbe essere gentile e rispettoso? È più povero di me. È meno educato di me. Non posso chiedergli un ragionamento più complesso di quello che faccio io. E se io sono così sciocco da pensare che la pubblicazione di una dozzina di volti di Maometto sia un momento fondamentale per la tutela della libertà d'espressione in Occidente, perché lui dovrebbe essere più furbo di me? Se io mi metto a dire "Tutto sommato ha ragione la Fallaci", perché lui non dovrebbe nel frattempo articolare un "Tutto sommato ha ragione Bin Laden"?
Il resto lo fanno i gruppi organizzati. Nel caso della Palestina, è evidente il desiderio di Hamas di mostrare i muscoli. Ma è possibile che in certi casi siano stati arabi qualunque, come Omar, a scendere in strada e riagganciare gli integralisti. Del resto queste sono solo congetture. Come si comportino davvero gli arabi, non lo so (Lia ne sa di più).

Credo però che non possano essere molto più furbi di noi. E noi, in questa banale storia di provocazione antislamica (a quasi vent'anni dalla fatwa a Rushdie: come se certe cose non le sapessimo), siamo stati molto stupidi. Poi, naturalmente, esiste l'integralismo, il fondamentalismo, esiste l'Odio, esiste il Male. Ma per favore, teniamo in debito conto anche la Stupidità.
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- help i'm a rock #357

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Io, in realtà, non volevo. Ha insistito lui:
la prossima volta che l'orrido sito dice che qui si scrivono "cazzate", faccia degli esempi. Dove? Come? Quando?
E va bene. Hai scritto una cazzata, Camillo.
Quando?
Ieri, 26 gennaio.
Dove?
Ma sul Foglio, naturalmente, la prestigiosa joint venture tra Veronica Lario e noi umili contribuenti.
Come?
Diciamo che ti sei lasciato un po' trasportare. Succede agli ideologi, e tu, volente o nolente, quello sei. Quando la realtà ti delude, te ne fai un'altra su misura.
Per esempio, in questo pezzo hai scritto che i palestinesi hanno votato a Gaza. Proprio così. L'ho letto e l'ho riletto, e mi sembra proprio che di Cisgiordania non parli. Se abitassi in cima al mondo, e il mio unico contatto con i miei simili fosse il quotidiano mio e di Veronica (e se fossi uno che si fida di quel che scrivi), dovrei dedurne che l'altro ieri i palestinesi hanno votato solo a Gaza.
Ora, io non sottovaluto affatto l'importanza di Gaza: in quella strisciolina di costa un tempo ridente vive più di un milione di palestinesi. Però la maggioranza sta altrove: in Cisgiordania. E a Gerusalemme est. E hanno votato pure loro. L'hanno detto tutti i telegiornali, e tu li guardi i telegiornali, sì? No? L'avrà detto anche la Gazzetta di Los Angeles e il Corriere di Tulsa, Oklahoma. Insomma, è una notizia di dominio pubblico. Ma tu nel tuo articolo parli solo di Gaza. E io mi sono chiesto il perché. Cos'ha Gaza che, per dire, Hebron non ha? O Gerico ? O Gerusalemme est?
L'unica differenza che mi è venuta in mente è che Gaza è stata sgomberata dai coloni, e il resto dei Territori no. Come se tu volessi istituire un rapporto di causa-effetto tra le due cose – ah, furbetto!
L’ultimo rifugio di quelli che dall’11 settembre 2001 a oggi non-ne-hanno-azzeccata-una è un nostalgico “si stava meglio quando si stava peggio”. I palestinesi votano a Gaza? Un disastro, signora mia. La democrazia per gli arabi? Una pia illusione di quei pasticcioni degli americani. Trattandosi di ex territorio occupato da Israele, i nostalgici che scrivono sui giornali non arrivano a rimpiangere i carri armati con la stella di David. Restano però più che scettici sul futuro democratico dei popoli arabi, quasi fossero “unfit”, incapaci di vivere senza un bel dittatorone coi baffi che li educhi e li bastoni per benino.
Chissà chi saranno poi questi signori "non-ne-azzecco-una". Di sicuro è gente poco informata. Visto che i palestinesi stanno facendo elezioni democratiche da dieci anni. Dieci, esatto. Le prime elezioni presidenziali e legislative dell'autorità palestinese ebbero luogo il 20 gennaio 1996. È vero che furono boicottate da Hamas, dalla Jihad e da gruppi meno importanti ma storici, come il FPLP e il FDLP. Ma è anche vero che la partecipazione fu massiccia per gli standard medio-orientali: il 73% in Cisgiordania e l'86% nella Striscia di Gaza. Ci furono brogli? No, secondo i 650 osservatori internazionali sotto la responsabilità dell'Unione europea (c'era anche Jimmy Carter). È probabile che Camillo non si fidi di loro.
È probabile che si trovi più d'accordo con Joel Mowbray del National Review, secondo cui Arafat vinse le elezioni presidenziali del 1996 troncando il dibattito interno nella sua coalizione (rifiutò i risultati delle primarie dell'OLP), e occupando massicciamente i media. Ma è davvero il caso di fare così gli schizzinosi? Dobbiamo escludere dal mondo democratico tutti i paesi in cui un leader di coalizione blocca il dibattito interno e occupa massicciamente i media? Meglio di no, per ora, eh? Se ne riparla in aprile.

Badate bene: non è che Camillo contesti le elezioni del 1996; non ne parla proprio. Sembra che non siano mai esistite. Del resto Israele è "l'unica democrazia del Medio Oriente", no? La Palestina non conta, la Palestina non è neanche uno Stato.
Scorriamo il suo pezzo ancora un poco.
Quando, mannaggia a Bush e a Sharon, si è formata una nuova leadership palestinese, Israele si è ritirata dai territori, si è cominciato a parlare concretamente di Stato palestinese e a Kabul, Baghdad e Gaza si è votato veramente, gli editorialisti accigliati hanno convenuto che nella regione si sarebbero aperti foschi scenari teocratici.
Così giovane, e già così revisionista. La "nuova leadership palestinese" si sarebbe formata grazie a Bush e a Sharon. Camillo probabilmente allude a quella fase farsesca della roadmap in cui Bush decretò che Arafat era corrotto e che quindi doveva nominare un Primo Ministro, e che quel primo ministro doveva essere Abu Mazen. Forse che chiese d'indire le elezioni, Bush? No. Non c'era bisogno di elezioni, era sufficiente che il corrotto Arafat nominasse l'immacolato Abu Mazen. Si esporta così, la democrazia: a colpi di diktat. Funzionò?
Funzionò quattro mesi: isolato da Hamas, Jihad e dallo stesso Arafat, si dimise in ottobre (si era insediato in marzo), accusando Israele e gli USA di non avergli dato quel sostegno che si aspettava almeno da loro. Questo fu il concreto contributo di Sharon e Bush alla creazione della "nuova leadership palestinese" (tra parentesi, Abu Mazen è una degnissima persona, ma di "nuovo" non ha poi molto: è del '35 ed è stato uno dei padri fondatori di Al Fatah nel '57).

Però alla fine è chiaro quel che Camillo intende, no? La democrazia in Medio Oriente si può fare, a patto che lo voglia Bush. A patto che lo sottoscriva Sharon. Insomma, purché sia d'esportazione! La democrazia fatta in casa non ci piace. Al punto che se i palestinesi votano, per la terza volta in dieci anni (l'anno scorso ci sono state le presidenziali e le ha vinte proprio Abu Mazen), lui si trova a dover fingere che la vera novità siano le elezioni a Gaza. E perché solo a Gaza? Ma perché è l'unica strisciolina di terra da cui Sharon ha avuto la buona creanza di ritirarsi. Un ritiro unilaterale, senza nessun progetto comprensibile dietro. Ma per Camillo tutto ha un senso: muore Arafat, Sharon si ritira, e i palestinesi possono finalmente votare. Tutto sta andando per il meglio, nel migliore dei mondi eccetera.
Ma ora le forze democratiche mediorientali hanno l’opportunità di avere un impatto reale nel futuro dei loro paesi, un’eventualità che non avrebbero mai avuto se Saddam, Arafat e il mullah Omar fossero rimasti al potere.
In definitiva sì, credo sia il caso di dirlo: stai scrivendo cazzate, Camillo. Io non ho mai nutrito eccessiva simpatia per Arafat; ma infilarlo in un elenco tra Saddam Hussein e il mullah Omar è fare violenza alla complessità delle cose. Non era Arafat a impedire lo sviluppo democratico della Palestina. Era una cosa che si chiama occupazione. Militare. Dei territori occupati. Dura da quarant'anni, ormai, e rende oggettivamente difficile qualsiasi transizione verso la democrazia. Ieri spingeva i palestinesi tra le braccia di un rais corrotto. Oggi li porta ad abbracciare il credo di Hamas. Quella che poteva essere la culla del laicismo arabo è diventata la prima regione del Medio Oriente dove i Fratelli Musulmani vanno al potere con elezioni regolari. Che bel risultato, per Bush.
Secondo solo a quanto avvenuto in Iraq: tre anni di guerra e guerriglia per mandare al potere gli ayatollah. Ora, in franchezza, sei assolutamente sicuro che Bush stia esportando la democrazia, Camillo? Non è che stia piuttosto contribuendo a seminare un bel po' di fondamentalismo religioso? Una cosa di cui si sentiva il bisogno.

E tu ti congratuli. Si congratula anche Mahmoud Ahmadinejad. Avrete qualcosa in comune.
Sì, ma cosa? Beh, una certa impostazione ideologica, forse. Quando la realtà non vi piace, la cambiate. Certo, è peggio lui che pasticcia con l'uranio. Tu in fondo le spari solo grosse su un giornale. Che però è anche il mio giornale, ricorda (e di Veronica).
Forse dovresti trattarci con più rispetto.

(E a tal proposito: ma i permalink, ci fanno proprio così schifo?)
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- pasticcioni dell'umanità, 2

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(Questa serie di post, che annoiano tutti, nascono da uno scrupolo: a un certo punto mi sono chiesto se, oltre a rivendicare il diritto di criticare Israele e la politica di Sharon, io fossi in grado davvero di criticare Israele e la politica di Sharon: citando fatti e date, senza le solite scappatoie da blog di opinione. È una gran fatica, ma ogni tanto qualcuno la deve fare. Perché è vero, un sacco di gente non sa di cosa sta parlando: e allora è tempo che chi qualcosa la sa informi gli altri. Che senso ha continuare a palleggiarsi degli "Sharon boia" e degli "Antisemita!" come se avessimo vent'anni – io non li ho più, vent'anni. E i ventenni ignoranti di adesso mi spaventano.

Questo non significa che dobbiamo smettere di scrivere battute su Sharon, se ce ne vengono in mente. E' solo che ogni tanto bisogna spiegare ai nuovi di cosa si parla: illustrare il perché quello che ad alcuni sembra un eroe e uomo di pace è ritenuto da altri un boia o un assassino. Tutto qui).

I disastri di Ariel Sharon (seconda parte)

1. La strage di Qibya.
2. Quel che disse Ben Gurion
3. Il passo di Mitla
4. "Immaginate di dover prendere la collina X..."
5. Eroe di guerra.

6. Nasce il Likud
Nel 1974 il nostro uomo compie il passaggio definitivo dalla vita militare a quella politica.
La traiettoria politica di Sharon, apparentemente, la conosciamo tutti: da caparbio promotore degli insediamenti nei Territori (1977-2003) a coraggioso artefice del ritiro dei coloni dagli insediamenti stessi (2003-2006). È una visione piuttosto schematica dell'uomo e della sua psicologia: come se dopo l'irruenza della gioventù, la cocciutaggine dell'età adulta s'intenerisse con la vecchiaia (secondo il vecchio luogo comune: battaglieri a vent'anni, moderati a sessanta…) Le cose per la verità sono più complicate. Per esempio, il primo incarico politico Sharon lo ottiene in un governo laburista: consigliere speciale di sicurezza nel primo gabinetto Rabin (1974-1977). Pochi sanno (e nemmeno io sapevo) che in un primo tempo "Sharon meditava di formare un partito con i pacifisti…
parlò dello Stato di Palestina, e prima che a destra nessuno avesse nemmeno il coraggio di pronunciare quella parola, lui era pronto a stringere un accordo. Quello che voglio dire è che sapeva come muoversi in tutte le direzioni almeno dal punto di vista retorico."
La testimonianza dello storico israeliano Avishai Margalit ci restituisce l'immagine di un politico più smaliziato e disinvolto. Resta da capire cosa porti in pochi anni Sharon dalle avances nei confronti dei pacifisti alla fondazione del Likud (1973), il blocco di centro-destra capeggiato da Menahem Begin che considera i Territori Occupati nel 1967 "Terra di Israele liberata". Forse l'ostinazione opposta e speculare dell'OLP di Arafat, che continuava la sua guerriglia dal Libano, rifiutando ogni progetto di spartizione tra il fiume Giordano e il mare (non già perché voleva cacciare gli israeliani, come qualcuno oggi pensa e dice, ma perché il programma di Al Fatah prevedeva la creazione di uno Stato unico, multietnico e non confessionale, in cui arabi ed ebrei avrebbero dovuto vivere con pari diritti e dignità: lo so, a dirlo oggi sembra fantascienza). Potrebbe anche trattarsi di una questione di opportunità: alla prova dei fatti Sharon sperimenta che il pacifismo in politica non paga, e si butta a destra. Quando il Likud va al potere, Begin lo nomina Ministro dell'Agricoltura. È un dicastero fondamentale, perché ha la delega sugli insediamenti.


7. La guerra della terra e dell'acqua
Gli "insediamenti" sono villaggi creati dagli israeliani (e in alcuni casi diventate vere città) nei territori occupati dopo la Guerra dei Sei Giorni (1967): Gaza e la Cisgiordania. Fino al 1977 erano sorte per lo più in zone scarsamente popolate ma strategicamente rilevanti. La 'colonizzazione' vera e propria dei Territori inizia con l'avvento del Likud al potere. L'obiettivo è rendere i milioni di palestinesi, residenti e profughi a Gaza e in Cisgiordania, una minoranza, circondata da una rete di città e strade israeliane. Come avverte, a chiare lettere, il presidente della commissione per l'insediamento dell'Organizzazione sionista mondiale, Matityahu Drobless: "diviene necessario effettuare una corsa contro il tempo.
[…] le terre demaniali e le terre incolte di Giudea e Samaria devono essere immediatamente confiscate al fine di colonizzare le zone entro e attorno i centri di residenza delle minoranze per ridurre al minimo il pericolo di un nuovo Stato arabo su questi territori. Non deve esserci il minimo dubbio sulla nostra intenzione di tenerci per sempre la Giudea e la Samaria" (citato da Baron, I palestinesi (2000), pag. 369).
"Giudea e Samaria" è il nome biblico per la Cisgiordania. I progetti di colonizzazione avanzati da Drobless riprendono le idee avanzate da Sharon e costituiscono il proseguimento della guerra (della sua guerra) con altri mezzi. Il principio fondamentale è lo stesso: non c'è miglior difesa dell'attacco, non c'è migliore strategia di quella che consiste nel mettere il nemico di fronte a un fatto compiuto. Così, mentre Begin temporeggia e tratta la pace separata con l'Egitto, Sharon permette ai coloni d'impadronirsi della risorsa fondamentale: l'acqua. Dal 1967 le autorità militari hanno proibito ai palestinesi dei Territori di creare, possedere o fare funzionare una installazione idraulica esistente senza l'autorizzazione del comandante della regione. In compenso i coloni dei Territori hanno il permesso di trivellare i pozzi nei loro insediamenti. Del resto nel 1980 Sharon ammette che due terzi dell'acqua nelle tubature israeliane proviene dalle alture del Golan e della Cisgiordania. Nel 1982 il governo 'nazionalizza' l'acqua palestinese, affidandola alla compagnia idrica israeliana.
Quello che rende disastrosa questa strategia di accerchiamento è che paradossalmente ha funzionato, rendendo nei fatti impossibile la creazione di uno Stato palestinese dotato, almeno in Cisgiordania, di una contiguità territoriale. Come ben sa chi ha guardato una cartina del futuro Stato palestinese secondo Camp David, Oslo, o la Road Map. Ma se i palestinesi hanno perso terre e acqua, gli israeliani non hanno vinto la battaglia demografica: in pratica Israele si è dissanguata (nel 1982 l'insediamento di una famiglia di coloni costava a Israele e all'Organizzazione sionista mondiale 120.000 $) per creare colonie di ostaggi, nelle quali la sindrome di accerchiamento ha favorito lo sviluppo di una società alternativa, spesso ispirata all'ebraismo più ortodosso: refrattaria a qualsiasi idea di pace coi palestinesi, pronta ad accusare i fratelli israeliani di tradimento, come si è visto quest'estate. Un bel disastro. E chi lo ha combinato? Dovendo fare un solo nome, io direi… ma è solo una mia opinione, andiamo avanti.

8. Gli attentati del 2 giugno 1980
Fino al 1977 Israele aveva combattuto molte guerre: alcune contro eserciti regolari, altre asimmetriche e 'sporche', contro nemici non riconosciuti, fedayn e terroristi (del resto il terrorismo era stato praticato anche da fazioni israeliane, come l'Irgun di Begin).
Con la colonizzazione dei Territori, la guerra diventa demografica. Può sembrare un progresso: non si tratta più di respingere un nemico, ma di circondarlo; non di sopprimerlo, ma di essere più prolifico di lui. In realtà è probabilmente il più grande disastro commesso da Sharon: l'aver posto le premesse per la nascita di una generazione di israeliani nelle colonie, cresciuti nel culto della terra degli antenati e, inevitabilmente, nell'odio per "gli usurpatori" palestinesi. I coloni sono, naturalmente, 'costretti' a difendersi da soli: nella pratica formano una milizia paramilitare permanente (in compenso sono spesso esentati dal servizio militare, il che li allontana ancora di più dall'esperienza di vita dei loro connazionali). Con la colonizzazione dei territori il conflitto israelo-palestinese diventa definitivamente una guerra civile: non più un Esercito regolare contro un Fronte di liberazione, ma coloni coi fucili e i palestinesi con le pietre (all'inizio; e con le bombe, in seguito). Una metastasi sociale che complicherà le cose sia all'Esercito israeliano che all'OLP. Forse Sharon non aveva previsto tutto questo.
In ogni caso si tratta di un processo che egli ha contribuito più di altri ad avviare. Nel 1980, durante un duro confronto tra le autorità israeliane e i sindaci palestinesi (accusati di essere "direttamente responsabili della sovversione in Cisgiordania"), Sharon parla di non meglio precisati "mezzi non convenzionali" da adoperare per normalizzare i Territori. Il 2 giugno il sindaco di Nablus (da poco scarcerato) perde due gambe in un'esplosione, dopo aver messo in moto la sua auto. Pressappoco alla stessa ora anche il sindaco di Ramallah ha un incidente analogo (perde una gamba). Il sindaco di el-Bireh, informato, dà un'occhiata alla sua auto nel garage e vi trova una terza carica esplosiva. Per il quotidiano israeliano Haaretz "è praticamente sicuro che si tratti di opera di ebrei" (Baron, op. cit., pag. 377). Nel 1982 quattro importanti esponenti della colonia di Kyriat Arba vengono arrestati per detenzione di esplosivi: due di loro sono processati in Israele per aver occultato documenti utili sull'inchiesta relativa agli attentati del 2 giugno. Nessuno, naturalmente, si permette di attribuire una qualche responsabilità morale a Sharon. Che nel frattempo è già lontano, a Beirut, alle prese con nuovi disastri… (Continua)
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Nome in codice: Agente CoPro.
Operazione Stay Besides!


Riassunto dell'ultima puntata: da qualche parte, in un posto che rassomiglia curiosamente al Paradiso a Pedali, Bar Taddei (per gli amici Teddi, il Neocone) è a rapporto. O credevate che gestisse il suo blog filoamericano a gratis, come quello di un fesso di neocone qualunque? Macché, Teddi è un evoluzione del neoconismo, è il neocone che sa associare passione e concretezza, ideali e $: Teddi è agente della Cia, cioè, non proprio un agente, perché mica ti assumono per scrivere stronzate su un blog: solo un Collaboratore a Progetto (Nome in codice CoPro). Verso la fine del 2005 iniziò a farsi pagare dall'Agenzia un cent ad accesso. Era l'inizio di una non entusiasmante carriera. E ora, vent'anni dopo, è finalmente giunto il momento di vendicarsi del suo diabolico nemico, ovvero…

"Eppure qualcosa non mi torna, Bar. Voglio dire, dovevamo essere davvero disperati per pagare gente come te, vent'anni fa. Eravamo così disperati?"
"Abbastanza, Signore. Vi eravate infilati in una guerra al Terrore virtualmente infinita, e stavate perdendo il sostegno di tutti i governi europei. La cosiddetta coalizione della Buona Volontà stava abbandonando l'Iraq alla chetichella. Avevate bisogno di riconquistare le opinioni pubbliche della Terra di Mezzo…"
"Finanziando siti amatoriali?"
"Signore, era un'idea all'avanguardia! Erano i tempi del viral marketing, del nanopublishing…"
"Parla la mia lingua, agente Bar".
"Questa è la sua lingua, Signore!"
"Allora dev'essere successo qualcosa alla mia lingua, perché io sono nato nel 2001 e non le ho mai sentite con le mie americanissime orecchie*, queste stronzate".
"Davvero è nato nel 2001, Signore?"
"Sì, perché?"
"Complimenti, Signore".
"Chi ti capisce è bravo, Bar. E io non sono bravo. Ma scusa, non potevamo finanziare qualche opinion-leader serio?"
"Signore, nessun opinion-leader di qualche peso si sarebbe messo a difendere l'uso del fosforo a Falluja o cose così".
"Ma non ne avevamo già a libro paga?"
"Alcuni sì. Giuliano Ferrara, ad esempio".
"Giuliano chi?"
"Con tutto rispetto, signore, un ex comunista che vi rifilò un paio di sòle. Organizzava fiaccolate bianco-azzurre a Roma, e cercava di dimostrarvi che l'Italia stava diventando filoisraeliana grazie a lui".
"E non stava diventando filoisraeliana".
"No, signore, non abbastanza almeno".
"Va bene, e così abbiamo iniziato a finanziare la gente come te. Ho qui il tuo dossier… ci sei stato utile in varie occasioni, Bar, questo è indubbio. Per esempio, ehm… l'operazione Stay Besides"
"Un'idea geniale, Signore".
"Già, già. Beh… in realtà il dossier in vent'anni s'è un po' deteriorato… facciamo così: spiegami con parole tue cos'era questa operazione Stay Besides".
"Semplice, signore. Avevamo deciso – pardon, avevate – di riscrivere la Storia d'Italia dal dopoguerra sotto una luce diversa. Per cinquant'anni ce l'eravamo raccontata come se si trattasse di pacificare un Paese del Patto Atlantico sulla soglia della Cortina di Ferro: Comunisti e anticomunisti, anni di piombo, caduta del muro, fine delle ideologie, ecc.. Questo modello non vi soddisfaceva più".
"Naturalmente".
"Vi serviva un nuovo modello, che proiettasse le ombre della Guerra al Terrore sul passato dell'Italia. Occorreva dimostrare che molto prima di Al-Quaeda, molto prima dell'11/9, l'Italia era già stata colpita dal terrorismo islamico".
"E come… potevamo fare?"
"Non era così difficile, Signore. Bastava trovare piste islamiche per tutte le stragi impunite degli ultimi 40 anni".
"Ah, perché in Italia c'erano state stragi impunite?"
"Parecchie, Signore. E tanti altri casi misteriosi. Per esempio, nel 1980 era esplosa una bomba a Bologna, una città governata dal Partito Comunista: 80 morti. Il processo andò avanti per vent'anni, e alla fine condannarono un paio di fascisti. Ma restavano molti misteri. E a questo punto arrivammo noi, con l'Operazione Stay Besides".
"E cioè?"
"Qualche suo collega andò a spulciare in un cartone di un vecchio Servizio Segreto Italiano – lì si trova qualsiasi cosa, a cercarla. Si scoprì infatti che c'erano indipendentisti palestinesi a Bologna quel giorno".
"Ma Bologna è una città molto grande, no?"
"Sissignore. In ogni caso venne confezionato un articolo sulla «pista islamica». Fu pubblicato sul peggior Giornale italiano e lì sarebbe rimasto, Signore, se noi blogger filo-Bush non gli avessimo dato una spinta".
"E qualcuno se l'è bevuta?"
"Signore, era solo l'inizio. Nei mesi seguenti dimostrammo che l'ordine di assassinare Aldo Moro era partito dal noto nazista Arafat".
"Aldo Moro?"
"Che l'assassinio di Pier Paolo Pasolini era la naturale conseguenza di una fatwa proclamata da un oscuro Ulema di che aveva avuto una sincope assistendo a una proiezione del Fiore delle Mille e Una Notte in un cinema per adulti di Alessandria d'Egitto".
"Pier Paolo Pasolini?"
"Che la strage del Cermis era stata provocata da un kamikaze siriano che si era rotolato nella neve causando una valanga che aveva trascinato con sé i tiranti della funivia, malgrado l'eroico sforzo dei piloti USA di salvare i passeggeri…"
"Stop. Stop. Io non so chi sia questa gente, Taddei. Non ne ho sentito parlare. Per me potrebbero essere tutte frottole (**)"
"Certamente, signore".
"Perché non erano frottole, vero?"
"Non lo so, signore. Io linkavo, copiavo, incollavo".
"Ma eri sicuro delle notizie che linkavi, copiavi, incollavi?"
"Ero sicuro della Causa, Signore. La Causa prima di ogni cosa".
"Taddei, guardami negli occhi. Hai raccontato altre bugie?"
"Per la Causa, Signore. Per la Causa".


(*) Lui in realtà dice: "All-american ears"
(**) "Bullshit"
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Il Kamikaze di Via Nomentana

[...]

Caro Leonardo,
hai capito cosa ti chiedo di fare?
E hai capito perché lo sto chiedendo a te?

Non schermirti, ti prego. Non ti abbiamo scelto a caso. Non sei il classico prescelto da trilogia hollywoodiana. Sei semplicemente uno sfigato che ha qualche esperienza nel settore. Non è la prima volta che ti fai esplodere, non è vero? Non la prima volta che ci provi, perlomeno.

Come faccio a saperlo?
Beh, io lo so.
Non è una risposta, dici.
Lo so.

Hai ancora dubbi? E allora ascoltami:

Verso la fine del 2005, nella penisola che nomavasi Italia, ad alcuni liberi pensatori cominciavano a girar le palle...

Da vent'anni costoro puntavano la loro carriera su questo o quel cavallo, nel grande ippodromo delle idee – e da vent'anni non avevano ancora azzeccato un piazzamento.
In una sala scommesse un po' più seria sarebbero già stati allontanati, ma l'Italia è evidentemente una bisca di quart'ordine, dove si fa credito sulla parola, o sulla faccia, o sul cognome; sicché questi continuavano imperterriti a giocare, sempre inseguendo la vincita clamorosa che avrebbe riscattato il cumulo di debiti. Proviamo a ricapitolare:

– avevano puntato sull'uomo nuovo, decisionista e di sinistra, senza tanti fronzoli moralistici: Bettino Craxi. Era finita molto male.

– avevano sperato nel libero mercato, bella speranza! Complimenti! Quanti bei soldi bruciati sul Nasdaq, bravi! E che astuti, geniali, a spellarsi le mani quando la Cina entrò nel WTO, che grande idea! Dopo qualche tempo, pur continuando a professarsi liberali, smisero di parlarne.

– nel frattempo avevano anche puntato sull'imprenditore nuovo, decisionista e anticomunista: Silvio Berlusconi. Pensavano: di politica sa nulla, avrà bisogno di noi. Si misero a libro paga, ottennero quotidiani e ministeri.
…Ma in capo a tre mesi dalla presa del potere era chiaro che non contavano niente. SB pensava solo a SB, ai suoi condoni e alle sue prescrizioni, al massimo alla formazione del Milan. Le dotte analisi sociopolitiche le dava da leggere alla moglie.

– allora avevano alzato lo sguardo: non c'è un padrone più grande (e più fesso) che ci possa adottare? Nessuno sembrava più grande e fesso di George Bush II, e loro accorsero scodinzolando. Guerra al terrorismo! Togliamo il burqa alle madri afgane! Saddam Hussein produce armi di distruzione di massa, è una vergogna! Esportiamo la democrazia! Giù le mani da Israele e dal nostro stile di vita!
…Ma si era tutto impantanato tra Tigri ed Eufrate, in quella guerra assurda che George Bush I aveva troppo saggiamente evitato. E benché non si potesse negare che Afganistan e Iraq fossero stati, in qualche modo, 'liberati', sul piano mediatico nel 2005 la battaglia era chiaramente persa. 2000 vittime americane (e 40 italiane) erano sufficienti a rendere il boccone per sempre indigesto. Si stavano defilando tutti: persino Berlusconi avvertiva di essere sempre stato contro la guerra. Persino Pannella.

– allora, ormai piuttosto nervosi per via degli uragani, si erano giocati il tutto e per tutto sulla carta dell'identità religiosa. Trascendendo dal Neoconismo al Teoconismo, avevano trovato il loro Dio, incarnato nell'essere perfetto e incorruttibile: l'Embrione. E sulle prime – complice un Papa morto di fresco – la cosa sembrava poter funzionare. Avevano persino vinto un referendum, senza partecipare (impossibile, lo so, ma è così). Avevano iniziato a tirar bordate contro il relativismo laico. Avevano festeggiato le detrazioni fiscali alla Chiesa. Erano pronti a inneggiare alla chiusura delle frontiere, delle moschee, dei campi nomadi. Tutto era pronto, occorreva solo un piccolo aiuto per saltare il fosso. Una catarsi. Un botto – insomma, non sono abbastanza chiaro?

Un attentato, perdio!


Un attentato kamikaze a Roma, Milano, Napoli o Torino, che ci voleva? Perché gli spagnoli gli inglesi gli indonesiani sì e noi no?
Apposta, a guerra fatta, eravamo andati ad appollaiarci a Nassiryia – o credevate che ci fossimo andati ad aprire le scuole e addestrare la polizia? Qualche anima bella l'avrà creduto. O che fosse per il petrolio? Qualche cronista addentro l'avrà pensato. Illusi! Macché scuole, macché petrolio! Era una provocazione bella e buona, uno sputo all'Islam, in diretta dalla ridente penisola nel bel mezzo del mediterraneo. L'Italia reclamava il suo piccolo undici settembre nazionale! La sua festa del "nulla sarà mai più come prima!" La sua pearl harbour in sedicesimo, il suo piccolo incendio del Reichstag! E non ci voleva mica tanto, no? Ci si accontentava di poche centinaia di morti, a Trastevere o in Galleria, per sedersi al tavolo dei vincitori…

Nell'estate del 2005 tutto era pronto. Ma niente. Cioè, quasi niente, appena una strage a Sharm el Sheik, colonia italiana d'oltremare. A sentire i servizi, la penisola pullulava tuttavia di alqaedisti in sonno, eppure nessuno si sognava di farsi esplodere qui. Ed era un bel guaio, per certi opinionisti nostrani, che sull'attentato si giocavano l'ultima fiche della loro carriera. Berlusconi stava per tramontare (così sembrava, almeno) e li avrebbe trascinati con sé. Dovevano agire. Entrare anche a gamba tesa, se necessario.

Ormai ogni scusa veniva buona per provocare. Per esempio: gli elettori iraniani, che forse si percepivano accerchiato dai contingenti angloamericani in Iraq e Afganistan, avevano espresso a sorpresa un presidente ultra-integralista. Uno di quegli effetti indesiderati dell'esportazione violenta di democrazia… bene, qualche mese dopo il neo-eletto presidente islamico annunciò a un congresso di studenti che Israele andava tolto dalla cartina. La solita boutade, niente di nuovo. Certo, l'Iran stava diventando una potenza nucleare – d'altro canto Israele lo era già da un pezzo. Certo, Israele si era appena ritirato da Gaza (che senso ha minacciare un ladro proprio quando dopo quarant'anni inizia a restituirti i cocci di casa tua?) Insomma, quel che aveva detto il presidente iraniano era molto grave, come tutto quello che succedeva in medio oriente da diversi anni. Ma in Italia – solo in Italia – divenne un fatto d'interesse nazionale, perché un quotidiano liberale, pochissimo letto, ma finanziato dallo Stato, decise d'indire una manifestazione di solidarietà a Israele. Lodevole iniziativa, no?
E tutti avevano aderito: da destra, da sinistra, dal centro; tutti a sventolare stelle di David azzurre in campo bianco, per la gioia dei telespettatori di Al Jazeera in mondovisione. Così, benché non si aspettasse milioni di persone in strada, il direttore del piccolo quotidiano poteva a ragione fregarsi le mani: era riuscito a far dire all'Italia intera: "cucù, siamo qui, siamo in mezzo al mediterraneo, e siamo filo-israeliani". Se gli alquaedisti in sonno non si svegliavano quel giorno, non si sarebbero svegliati mai. O no?

E se ora mi rivolgo a te, è perché lo so.
Quella sera di vent'anni fa – stai cristallizzando il ricordo giusto or ora – tu eri a Roma, barbuto e abbronzato, con una pettorina esplosiva e forse una kefiah.
Forse che non c'eri?

"Arci…"
"Sì?"
"Mi sa che stiamo facendo una cazzata ".
"Non ti preoccupare. Inspira ed espira, su. Ricorda l'addestramento".
"Ma che addestramento, Arci, dai. Andiam via. Ho paura".
"Sssst. È tardi. Inspira ed espira".
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I colloqui eccetera (4)

Attacco alle torrette elettriche

Caro Leonardo,
mi rendo conto che qsta fissazione di Taddei per la sfida Bush-Kerry ha qualcosa di maniacale. Ma bisogna mettersi nei suoi panni. Oppure, fingiamo di essere nell'intervallo del primo tempo della finale Italia – Germania Ovest, luglio 1982, stadio Bernabeu, e di cadere in coma profondo davanti alla tv. Svegliandoci vent'anni dopo, qual è la prima cosa che chiederemmo agli infermieri? Se i nostri parenti sono ancora in vita? Se la DC è ancora al governo? Se l'olocausto nucleare poi c'è stato? O come sta Pertini? E chi ha messo la bomba a piazza Fontana? Tutte cose importanti, indubbiam. Ma non saremmo più curiosi di sapere chi ha vinto la partita?
Credo che con Taddei sia andata così. Si è addormentato a metà di un evento mediatico molto importante, che a noi non dice più niente, ma che per lui era la vita. Non fosse stata per quell'indigestione di peperoni.
Peperoni, peperoni.
Cosa mi ricordano?

"Che strano però. Mi ero quasi convinto che fosse colpa di Kerry. Vince nel 2004, la guerra al Terrore si sgonfia…"
"Colpa di cosa?"
"Di tutto questo. Invece di cacciare Al Qaeda nelle sue tane… richiama a casa i ragazzi e si allea con sceicchi ed emiri vari… Signori, non mi frega nulla se siete dei tiranni: garantitemi tot petrolio all'anno e una parvenza di democrazia… anzi, perché non eleggete una principessa, una da copertina, stile Giordania? In Occidente la chiameremo presidentessa, da voi la chiamerete Califfa, e saranno tutti contenti".
"Magari è proprio andata così".
"No, fottimadre, non è andata così, perché Kerry ha perso!"
"E quindi?"
"E quindi ha vinto George W. Bush, che ha riappacificato l'Iraq trasformandolo nella prima, anzi nella seconda democrazia del Medio Oriente, e ha diviso equamente i proventi del petrolio tra i cittadini iracheni. Perché lo ha fatto, vero?"
"Guarda, adesso su due piedi, così…"
"E l'esempio dell'Iraq è stato così fulgido che in pochi anni tutto il Medio Oriente arabo ha cacciato i suoi tiranni si è federato in un'unica democrazia! E ci saranno state tante rivoluzioni pacifiche, finanziate dai paladini della libertà… la rivoluzione del dattero, la rivoluzione dell'ulivo, la rivoluzione del cuscus…"
"Quella me la ricorderei".
"…finché non è nato, in tutto il territorio dell'antico califfato, un'unica grande democrazia, che ha eletto sua rappresentante: una donna araba!"
"Kadija Bin Laden".
"È andata così?"
"Sì, magari è andata così"
"Che significa magari! Anche prima hai detto magari!"
"È andata in entrambi i modi. Sono solo due modi diversi di raccontare lo stesso processo".
"No. Non è lo stesso processo. Il primo caso è Kerry-style. Il secondo è Bush".
"Sono solo persone. Tu credi che le persone possano cambiare la storia".
"Certo che è così".
"La tua fiducia è irrazionale e a-scientifica. Ricordati che noi siamo venti anni avanti a te, e sappiamo che non è vero. È la Storia che cambia le persone".
"Stronzate".
"Guarda noi. Guarda cosa abbiamo fatto a Berlusconi. Avevamo bisogno di un simbolo del passato, qualcosa di rassicurante, in cui si riconoscessero anche le vecchiette. Come gli argentini quando richiamarono Peron. Abbiamo preso un vecchio tycoon iperliberale e lo abbiamo trasformato nel capo di un regime teocratico-socialista. E lui si è lasciato manovrare. È la Storia che fa gli uomini".
"Ma se ho capito bene, adesso è lui che manovra voi".
"Incidenti di percorso. Ma noi sappiamo che…"
"Ma che cazzo volete sapere, voi. Piantate alberi, riciclate tovaglioli sporchi e comunicate con la playstation".
"È solo un'interfaccia utente. Che c'è di male. Guarda che ci sono volute generazioni di studiosi ed ergonomi per arrivare a…"
"Generazioni di segaioli".
"Sentilo, ha parlato il superoe. Hai fatto qualche altra buona azione di recente? Rubati molti super-polli nel contado? Sai che hanno dato la colpa ai terroristi libici anche delle tue scorrerie nei pollai?"
"Non sono libici".
"Certo che no".
"Non parlano arabo. Ne ho fermati un paio e…"
"Cos'hai fatto?"
"Ho sventato un paio di attentati, qui. Alle torri dell'enel. Che immagino non si chiami più enel, ma comunque…"
"Taddei, gli attentati non sono veri. È solo propaganda di regime. Speravo che tu lo capissi. Che leggessi tra le righe che…"
"Ho letto tra le righe, grazie. Ma i terroristi ci sono. Io li vedo. Di notte. E ti dico che non sono arabi. Io me li ricordo, gli arabi".
"Non ne hanno mai trovato uno vivo".
"Sono svelti. Appaiano e scompaiono".
"E magari si immolano alle torrette dell'enel di San Lazzaro, dai. Non pensi che dovresti tornare all'ospedale?"
"Sto bene qui".
"Sei proprio sicuro? Voglio dire, vivi in un rifugio sotto il cimitero ai caduti americani. La sera esci, rubi un pollo, compi qualche vilipendio alla religione, vegli sulle torrette enel, distruggi il male, e poi? Ti sembra una cosa normale alla tua età? Hai cinquant'anni!"
"Trentuno".
"Oh, sì, va bene. Adesso però, scusa, mi parte il filobus. E non vedo altri motivi per perdere tempo con un fanatico filo-usastro che vent'anni fa ha fatto un'indigestione di peperoni e…"
"Tu sei qui perché ti hanno promesso soldi. Molti soldi".
"Non così tanti, poi".
"E, in secondo luogo, sei qui perché io ho voluto incontrarti, e non te ne andrai finché io non lo vorrò".
"Credi di farmi paura?"
"Sì. Per cui spero che risponderai senza troppe cerimonie. Voglio la decima risposta".
"Cosa?"
"Quando sei stato malato, ti ho scritto dieci domande. Tu hai risposto solo a nove. Hai finto di non vedere una domanda, e non hai mai risposto. Voglio sapere il perché".
"Semplice distrazione".
"Stronzate".
"Ma no, sul serio, non ricordo neanche più qlla domanda…"
"Strano, per uno con la tua prodigiosa memoria. Quando ho visto che non avevi risposto, mi sono molto preoccupato. Ho domandato una cartina geografica. Non ne avevano. Sono arrivati con una di qlle fottutissime playstation, gliel'ho rotta in testa".
"Qllo lo ricordo".
"Poi sono evaso. Tutto perché ti sei rifiutato di rispondere a qlla fottuta domanda, e non credo che tu sia poi così distratto, herr Immacolato".
"Si è fatto tardi".
"Rispondi, una volta buona, o t'ammazzo. Non scherzo".

Non scherzava, così gli ho risposto.
Lui poi è restato ancora a lungo sulla panchina, il volto infagottato nel cappuccio. Se ha pianto è stato in modo molto discreto. Io sono riuscito a prendere il filobus in tempo. Gli ho dato un appuntam in facoltà, la vita continua, ed è tempo che impari a usare la playstation.
Volevo dire, l'interfaccia utente di Supernet.
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- 2025

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DA: Immacolato, via del Beato Giussani 12 – San Petronio Nord
A: – Ospedale Maggiore – alla cortese attenzione del primario dott. Damaso
OGGETTO: DIECI RISPOSTE PER IL CAP TADDEI
(Messaggio a spese del destinatario)


"Si è già sentito il bip?
Oh, beh, comincio.
Buongiorno dottor Damaso, buongiorno sig. Taddei. Chiedo scusa per la pessima qualità dell'immagine, anzi, direi che non vi arriverà nessuna immagine dal mio lettore, giusto un fotogramma fisso. È un aggeggio un po' antico, ma tanto quel che conta è l'audio, giusto?
Spero che stiate bene, e che in particolare il sig. Taddei si sia ormai rimesso dal, ehm, trauma post-ibernazione. Approfitto della comunicazione per scusarmi della mia lunga assenza, dovuta a un malessere influenzale. E veniamo alle sue domande". (rumore di pergamena spiegazzata)

Uno. Chi ha vinto le elezioni americane del 2004?

"Caro sig. Taddei,
per prima cosa, un appunto linguistico: cerchi di evitare espressioni come "elezioni americane". Esse non sono consentite considerate corrette. Oggi noi usiamo l'aggettivo "americano" solo nel suo uso linguisticam corretto, vale a dire riferito all'intero continente americano, compreso tra Alaska, Groenlandia e Terra del Fuoco.
Per indicare invece il Paese noto come Stati Uniti d'America, noi utilizziamo l'aggettivo "usastro", che ha ormai perso la sua iniziale sfumatura negativa.

Quanto alla sua domanda:
mi dispiace non essere in grado di rispondere. I dati in mio possesso non mi consentono di rispondere con esattezza. So bene quanto la cosa la turbi, ma la prego di credere che non è il caso di spaventarsi più di tanto. In effetti, anche ai suoi tempi, non erano molte le persone che ricordavano con esattezza i Presidenti usastri eletti vent'anni prima. E anche qste poche persone, difficilm avrebbero potuto tenere a mente una nozione del genere senza l'aiuto costante di supporti informativi: tv, stampa, eccetera. Una sorta di archivio omnisciente che fino a vent'anni fa si tendeva a dare per scontato.
Ora, si dà il caso che negli ultimi vent'anni, a causa di una serie di contingenze, l'accesso a questo archivio sia stato molto meno condiviso che in passato. Alcuni media, come tv e internet, sono stati dismessi in quanto formati desueti; anche i quotidiani del passato non sono stati raccolti, ma riciclati per… per stamparne altri. Qsto fa sì che anche persone dotate di buona memoria, come me, abbiano grosse difficoltà a ricordare eventi importanti che non li hanno riguardati di persona. Per capirci, negli ultimi vent'anni ci è mancato il ripasso. E gli studi più recenti sulla memoria ci confermano l'importanza cruciale del ripasso, per la conservazione delle nozioni.

In ogni caso ho una vaga idea di quel che fece il vincitore di quelle elezioni: cercò di mettere una toppa nel paio di guerre che il suo predecessore aveva cominciato, chiedendo l'aiuto degli europei che erano rimasti un po' scettici, e senza troppo urtare cinesi e russi. Insomma, quel che tutti si aspettavano facesse".

Due. Osama Bin Laden è stato catturato?

Se, come credo, per "Osama Bin Laden", lei intende il cugino di terzo grado dell'attuale Califfa del Levante, Lady Kadija Bin Laden, la risposta è: no.
Osama Bin Laden, per molti anni è stato sospettato di essere il Numero Due della potente organizzazione terroristica diretta da Al Zarqawi, Al Zahari e Muhammad Omar, nota al mondo come Al Qaeda. In realtà è stato dimostrato che per tutto questo tempo si trovava in coma profondo in un ospedale di Dubai. Posso capire la sua incredulità, ma ci sono tre anni di registrazioni di lui immobile su un letto.
In seguito si è risvegliato, e ora conduce un programma molto seguito e controverso su un'emittente pan-araba. Una volta lo trasmettevano anche da noi, poi hanno smesso. Se le interessa possiamo cercare di sintonizzarci all'ospedale.

Tre. Qual è la situazione attuale del Medio Oriente? L'Iraq è una repubblica democratica?

In parte ho già risposto. Gran parte della regione nota come "Medio Oriente" – incluso quasi tutto l'Iraq – è oggi parte del Califfato del Levante, una media potenza del sistema petrolifero. Il Califfato non è una "repubblica democratica" nel senso che davate a questa espressione… ehm… nel 2005. Ci sono elezioni e candidati, tuttavia su una base di censo, com'è inevitabile in una nazione dove le disparità economiche restano fortissime e le classi sociali hanno la compattezza di caste. La stessa Califfa, pur avendo ricevuto un'investitura popolare mediante un plebiscito, è l'espressione di un'oligarchia petrolifera. Qui da noi accadde una cosa simile con Montezemolo… no, aspetti, lei era già ibernato quando Montezemolo…

Cinque. Nel nostro unico colloquio, a un certo punto lei accennava al fatto che gli Stati-Nazione non esisterebbero più. Si riferiva per caso all'Unione Europea? Qual è l'attuale assetto politico europeo? La Turchia ne fa parte?

Anche in questo caso, devo farle presente che l'espressione Unione Europea è fortem sconsigliata in società.
Oggi noi preferiamo dire "Unione Bizantina", e ci riferiamo agli abitanti dell'Unione come Bizantini. Questo vezzo linguistico data per l'appunto dal momento in cui la Turchia, vincendo le titubanze interne, accettò definitivam di entrare nell'Unione, a patto che ne uscissimo noi. Ne seguì un breve conflitto, al termine del quale un ramo del Parlamento Europeo fu trasferito da Strasburgo a Istanbul, che dell'Unione è la vera capitale politica e commerciale.
Attualm l'Unione è una media potenza del sistema tecno-consumistico. Il paragone con l'età di Giustiniano è in parte autorizzato dall'attenzione maniacale per leggi e regolamenti e dalle frustrate ambizioni imperiali: tuttora i Bizantini mantengono avamposti in Romagna e nelle Puglie".

(continua)
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Aggregatore della domenica

Oggi, 29 febbraio (San Precario), nevicava. Ma io sulla neve non ho altro da aggiungere.

Ma non temete, finirà anche questo inverno, come tutti gli altri, si squaglierà come neve al sole, e sotto la neve Modena vi offrirà una primavera carica di stupende iniziative culturali. Venerdì prossimo alla Tenda comincia un ciclo sulle Narrazioni in Movimento: verranno quasi tutti gli scrittori che hanno parlato del G8 di Genova nei loro romanzi: Bosonetto, Bugaro, Dazieri, Lestini, Tassinari, Carlotto. Camilleri aveva un impegno. Qui c’è il programma.

Martedì 30, poi, nel trendissimo locale Juta di Via del Taglio, presenteremo Blogout a chi non se lo fosse ancora procurato, in compagnia dei polaroidi e di altri blog di scuola modenese. Rispetto all’ultima presentazione, posso garantire che il bar resterà aperto, e qualsiasi dibattito sui Commenti verrà punito in modo esemplare (notate che qui non metto nessuna faccina ironica).

Codesto blog darà a tali iniziative tutto il risalto che meritano. Invece non darà risalto a Sanremo, né in generale a nessuna trasmissione tv d’intrattenimento. Per i motivi già spiegati l’anno scorso, ma anche per uno molto più banale: io di tv ne guardo poca, perdo troppo tempo coi blog.
Da quel poco che ho capito, comunque, “Bisturi” segna lo sputtanamento finale della body art, e non me ne posso che rallegrare. (Grazie, Spocchia):

Nelle oziose performance delle due operatrici dell'estetico albergava uno spirito piccolo-borghese e narcisista, tipico d'altra parte di tutta quella body art e arte concettuale che fa del proprio ombelico il centro dell'universo. Uno non lo dice per non essere accusato di zdanovismo e maschilismo. Ma poi l'idea che sta alla base di tutte le esibizioni di Orlan (operazioni di chirurgia estetica in diretta) viene ripresa senza sostanziali modifiche da un programma di Irene Pivetti e Platinette. E quindi è inutile nasconderlo, stavolta sono contento, time is on our side.

In realtà parlare di tv non è facile come può sembrare. Bisogna essere ironici, e io ultimamente non ci riesco. Mi cascano le braccia subito e non so come raccoglierle. Prendete – non so – gli spot della Tim. Io vorrei tanto riuscire a fare ironia sugli spot della Tim, ma non ci riesco. Quando le cose sembrano troppo facili, in realtà si fanno davvero difficili. E infatti ci riesce solo Personalità Confusa. Sulla scala della mia invidia, se volete saperlo, X§ sopravanza Sergio Romano di parecchi gradini.

Qualche gradino lo ha salito anche Secondavisione con questa esilarante letterina a Laura (non la Laura dei cocktail, un’altra meno giovane che fa l’attrice).

Poi, uno ha un bel da dire che la differenza culturale è un feticcio: ci sono cose che ti lasciano sgomento. Per dirlo con Cronaca Vera: Per mettere a suo agio l’ospite occidentale del figlio, coppia di coniugi egiziani gli regala una cassetta porno… D’altronde, come dice Lia, l’importante è venirsi incontro…

Chi è arrivato fin qui si merita letture impegnative. Bene. Avete ancora 5 giorni di tempo per leggere questo bel pezzo di Pierpaolo Ascari su Casanova, Stendhal, Paul et Virginie e Mme Bovary, prima che il Manifesto lo cancelli come genialmente fa con tutto quello che pubblica. Segue dibattito.

E anche febbraio ce lo siamo tolti di mezzo. Secondo me è andato un po’ meglio di gennaio, ma secondo voi no.
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Cantico del 25 aprile -- terza e ultima parte

Il melodramma volge al termine. Vale la pena di ribadire che ogni riferimento a persone, cose, ecc., è puramente casuale.

I 25 aprili futuri

Passerà il tempo che deve passare, cambieremo lavoro e famiglia, governo e alleanze, cambieremo perfino idea, ogni tanto; ma io non sono mai stato un ottimista, sai, mi riterrò soddisfatto se il futuro mi consente di venirti ancora a trovare da qui a dieci anni, e a litigare, perché no, sarebbe già un discreto risultato.
“Passavo di qui, mi son detto: magari è in casa”.
“Hai fatto bene. Sali”.
Una fitta sparatoria eccheggia dal salotto. “Piero, saluta lo zio Davide. Piero!”.
Piero è distratto, comprensibilmente: sta attaccando da solo un commando di terroristi palestinesi. A Natale suo padre gli ha portato la Playstation V. “Ciao, zio”.
“Vieni di là, ti faccio un caffè”.
“Grazie”.

In cucina c’è una pila di fogli protocollo a quadretti, sfregiati ovunque di rosso. Verifiche di matematica.
“Siamo in fase correzione intensiva, eh?”
“Oddio, che vergogna, sono così indietro…”
“Anche a me piaceva correggerli in cucina. Poi li restituivo con le macchie di sugo. Ero veramente un gran cazzone”.
“Non ti manca un po’ la scuola?”
Alzo le spalle. “Era troppo alto il rischio di diventare un tuo collega”.
“Stronzo. Ma il nuovo lavoro come va?”
“Non mi lamento”.
“Il 25 lavori? O vai da qualche parte?”
“Il 25? Sai che non ho preso impegni? Penso che starò a letto fino a mezzogiorno”.
“Senti… vorrei chiederti un favore. Un favore grosso”.
“Spara”.
“Mi… mi hanno invitato in montagna per il ponte”.
“Ottimo. Un po’ d’aria buona farà bene anche a Piero”.
“Ecco, in realtà non… Piero non è stato invitato”.
“Ah”.
“Cioè, magari… però io ho pensato che… insomma, era meglio non portarlo”.
“Ho capito”.
Il caffè gorgoglia, si mescola al gemito dei terroristi che sale dal salotto. Piero è passato all’arma bianca.
“Ma è una cosa importante, sai, lui… è un tipo serio”.
“Ti ho detto che ho capito”.
“Quello stronzo di suo padre è sempre in Germania e i miei genitori… mi vergogno a chiederglielo”
“Non ti devi vergognare”.
“E poi andate d’accordo, voi due”.
“Ci lasci il frigo pieno?”
“Però non farlo giocare alla playstation tutto il giorno. A volte mi spaventa”.
“Se il tempo è bello potremmo andare al corteo”.
“Ecco, bell’idea. Quanto zucchero?”
“Niente zucchero, grazie”.
“Aspetta un momento. Di che corteo stai parlando?”
“Il corteo dell’Anpi, hai presente? Danno anche lo gnocco fritto. Magari lui non c’è mai stato”.
“Stai scherzando, spero”.
“No, perché?”
“Non posso credere che facciano ancora il corteo, sono dei matti”.
“È pur sempre il venticinque aprile, sai”.
“Il venticinque aprile! E ti sembra una cosa da ricordare con un corteo? L’anniversario della sconfitta?”
“Non è proprio una sconfitta. Si chiama liberazione”.
“Ma lo sai meglio di me che è col 25 aprile che è cominciato tutto! Lo strapotere americano in Europa! La spartizione di Yalta! Quei porci ci hanno succhiato il sangue per sessant’anni!”
“Dai, Costanza…”
“Ci hanno sfilato il Medio Oriente da sotto il naso! Ti sembra giusto pagare il petrolio al prezzo che ci fanno loro? Il petrolio che abbiamo scoperto noi europei?
“Costanza…”
“E adesso hanno cominciato a rincarare anche i cereali! E l’acqua. Ormai controllano anche l’acqua. Hai visto quello che è successo al Kashmir, no? E lo Zimbabwe?”
“Cosa vuoi mai, c’era una dittatura…”
“Li hanno bombardati al tappeto per due settimane! Migliaia di morti! E tu festeggi con loro?”
“Io ho sempre festeggiato, Costanza”.
“Sei un incoerente. Te l’ho sempre detto. Se ti vedesse tuo zio”.
“Cosa c’entra mio zio, adesso”.
“Tuo zio era uno dei pochi che aveva capito tutto. Voleva un’Europa continentale libera, orgogliosa, gelosa delle sue risorse. Ed è morto per questa idea”
“Mio zio è morto perché si filava tua nonna”.
“Ma è possibile che a quarant’anni tu non riesca a capire…”
“Costanza….
“Sei ancora il solito patetico pacifista col mito dei partigiani che…”
“Stavo scherzando. Non lo fanno più il corteo”.
“Non lo fanno più?”
“No, l’Anpi ormai non c’è più”.
“Perché mi hai detto che volevi portarlo al corteo?”
“Per farti arrabbiare. Mi piace farti arrabbiare”.
“Sei uno stronzo, sai”.
“Sei carina quando ti arrabbi”.
“Ma vaffanculo”.

Il 25 aprile 2013 io e Piero lo passiamo così:
ci svegliamo a mezzogiorno, facciamo colazione e massacriamo un centinaio di hezbollah per ora di pranzo. Pranziamo verso le tre, poi, siccome è una bella giornata, ci vien voglia di tirar fuori le biciclette e salire sull’argine.
“Facciamo una gara?”
“Ma tu hai la bici nuova, non vale”.
“Tu e i tuoi amici venivate qui da ragazzi?”
“Qualche volta venivamo a farci le canne a pescare. Non ho mai preso niente”.
“E mia mamma veniva?”
“No, non era il tipo”.
“Mamma dice che da ragazzo tu le andavi dietro”.
“Non crederai mica a tutto quello che ti dice tua madre”.
“Dice che sei uno stupido, perché per tanti anni le sei andato dietro e non gliel’hai mai detto”.
“Anche se gliel’avessi detto non sarebbe cambiato niente”.
“Dice che da ragazzo, se m’innamoro di una ragazza, non devo essere stupido come te, devo dirglielo subito”.
“Seh… parla l’esperta, parla”.
“Ma perché non glielo hai detto?”
“Sai che fai un sacco di domande?”
“Scusa”.

“Non potevo mica dirglielo in mezzo a tutta la gente, mi vergognavo”.
“Perché non hai telefonato?”
“Non si dicono queste cose per telefono”.
“Perché?”
“Volevo portarla in un posto tranquillo, dove non ci fosse nessuno, e dirglielo”.
“Aaaaaaah!”
“Levati quel sorrisino dalla faccia, cosa credi? Io ero un ragazzo serio”.
“Perché non l’hai invitata in montagna?”
“Tante volte l’ho invitata in montagna, ma lei non è mai voluta venire”.
“Perché?”
“Non so, ogni volta ci mettevamo a parlare di politica e litigavamo. Poi lei si è messa con tuo padre”.
“Tu e papà eravate amici?”
“Non ci conoscevamo tanto bene”.
“Mamma dice che tu non lo potevi sopportare”.
“E vabbè, che dovevo fare? Mica potevo ammazzarlo”.
Che cos’ho detto?
“Che cos’hai detto?”
“Niente”.

L’argine attraversa il paese e lo abbandona in un minuto. Si snoda in una campagna piatta, dove nessuno ha ancora trovato conveniente edificare. Scarta a destra, poi a sinistra, aggirando una vecchia corte, un agriturismo.
Quello era il podere della mia famiglia. E mio zio è sepolto lì, da qualche parte. Non può essere altrove. Non si può fare molta più strada, a piedi, tallonato da una carabina, magari con una vanga in mano.
È molto difficile riuscire a immaginare i pensieri di un uomo che sta scavando la propria fossa. È chiaro che fino all’ultimo deve aver sperato di salvarsi. Forse ha pensato a uno scherzo. Erano due ragazzi, dopotutto. Ma è vero che avevano alle spalle anni di orrori.
Avrà supplicato. O era troppo fiero per farlo? O sapeva che era inutile?
Insomma, non lo so. Ho provato tante volte a pensarci. Ma devo arrendermi: tra me e mio zio e il suo assassino c’è troppa distanza. Io non posso immaginare quel che hanno provato. Erano diversi da me. Erano un’altra razza. Erano in guerra. Io non so cos’è la guerra.
E non me ne devo vergognare. Anzi. Forse dovrei esserne fiero.

“A cosa pensi?”
“Alla guerra”.
“Allo Zimbabwe?”
“No, alla guerra che c’è stata qui”.
“Perché, qui c’è stata una guerra?”
“Sessant’anni fa. A scuola non vi hanno detto niente?”
“Non mi ricordo”.
“Sai che festa è oggi?”
“Certo che lo so. San Marco Evangelista”.
“Che cosa?”
“È il patrono di Venezia. Sai che la sua tomba ce l’avevano i turchi e non la volevano dare ai veneziani, allora i veneziani lo hanno rubato e lo hanno nascosto in mezzo a della carne di maiale”.
“E te le raccontano a scuola queste puttanate cose?”.
“Sai che i musulmani non sopportano la carne di maiale, così al confine non hanno fatto l’ispezione, e sono riusciti a portare il corpo a Venezia. Per questo lui è un simbolo dell’orgoglio europeo, e…”
“Aeeetchm!”
“Hai il raffreddore?”
“No, sono i fiori”.
La primavera è precoce, quest’anno. “Piero, hai presente quella canzone… l’avrai sentita senz’altro… quella che fa
E questo è il fiore / del partigiano / O bella ciao, etc.”
“Beh?”
“Sai chi erano i partigiani?”
“Erano dei soldati”.
“Ma non erano soldati regolari. Sai, l’Italia era stata invasa dai tedeschi, e…”
“Ma i tedeschi non sono nostri amici?”
“Erano nostri amici, ma poi…”
“Che confusione”.
“Hai ragione. Ma una volta se ti va ti racconto la storia. Sai che tuo bisnonno era un partigiano?”
“Ha ucciso molti nemici?”
“Sì… no… non so. Torniamo a casa?”
“Facciamo a chi arriva prima”.
“Ma tu hai la bici nuova, non vale”.

Sessantotto anni prima, a quell’ora, la gente scendeva in piazza a festeggiare. Chi aveva ucciso festeggiava di non dover più uccidere; chi si era nascosto festeggiava di non doversi più nascondere. E poi, certo, c’era chi anche quel giorno covava i suoi rancori, e approfittava della confusione: e non dobbiamo scordarcene. Ma era una bella giornata, e la guerra era finita: e se abbiamo 364 giorni all’anno per litigare su tutto, pure la gioia di quel giorno dovremmo essere capaci di festeggiarla. Per chi ha combattuto, per chi è morto, per chi ha sofferto, per chi era stanco di sparare in montagna, e aveva voglia di portarsi su la morosa. O dobbiamo litigarci anche questa gioia? Che senso ha?
Chiedete a chi ha combattuto: loro sanno quant’è bella la pace, il primo giorno. Con un po’ di fantasia dovremmo essere capaci di capirlo anche noi. Buona Liberazione.
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Io sono un colluso, 2. (Continua da ieri)
Riassunto delle puntate precedenti. Il nostro eroe, arrestato con l'accusa di Incoerenza, è finalmente di fronte alle proprie responsabilità. Con quanti dittatori assassini ha collaborato? Da quanti capi di Stato corrotti ha accettato i dolciumi?

"Se non ha capito glielo ripeto. Ha mai accettato dolciumi da un capo di Stato corrotto?”
“Aspetti… un attimo”.
“Dov'era la notte del 31 dicembre 2001?”
“Un attimo. Ho mangiato i dolcetti di Arafat! Ma non è un dittatore! È stato democraticamente…”
“E chi ha parlato di dittatore? Ho detto: capo di Stato corrotto. Non le risulta?”
“Certo che mi risulta! Said lo dice da anni. E allora?”
“Avresti potuto lincarlo, questo Said. A leggere il suo blog, sembra che i palestinesi siano tutti bravi e buoni e prigionieri nei Territori. Non le risultava, la corruzione dell'Autorità Nazionale Palestinese, la notte del 31 dicembre 2001?”
“Ero in comitiva. Mica potevo piantar grane”.
“Anche solo aprire la bocca. Per i dolcetti l’ha aperta”.
“Avevo fame, abbiamo cenato all’una del mattino”.
“Il discorso le è piaciuto?”
“È stato imbarazzante. Lì per lì ho pensato all’alzheimer. Continuava a dire “Peace” e “my country” a ripetizione. Poi mi sono detto: cosa pretendo? Cosa pretendiamo da un ex guerrigliero sotto assedio?"
“Cosa pensa di lui? Lo preferisce ad Abu Mazen?”
“No, un attimo, io questa cosa non la capisco. Abbiamo detto coerenza? Va bene, coerenza. Vogliamo la democrazia in Medio Oriente? Arafat è stato eletto democraticamente. Se c’è stato qualche broglio, beh, sono cose che capitano anche in Florida. Se c’è stata corruzione e collusione col terrorismo, sono cose che sono capitate anche a Tel Aviv. Si ricorda di Sabra e Shatila? Sharon lasciò campò libero ai falangisti libanesi, che fecero un massacro. Se lui può farsi eleggere democraticamente, non vedo perché Arafat…”
"Crede che rinfacciarsi i misfatti del passato possa portare in un qualche modo alla pace? Non trova che qualcuno dovrebbe smetterla per primo, e riconoscere unilateralmente le proprie responsabilità?"
"S-sì, ma non vedo perché devono essere i palestinesi".
Stringe le spalle "Forse perché sono i più deboli. Quindi li mangerebbe di nuovo, quei dolcetti?”
“Erano pure buoni”.
“Li mangerebbe?”
“Io faccio sempre onore agli ospiti, è la mia cultura. La civiltà contadina. E' una civiltà occidentale”.
“È solo un maledetto ingordo. Va bene”.
Scribacchia qualcosa su un incartamento, poi lo straccia e lo butta via. Sbuffa.
“È ancora qui? Può andare”.
“Dove?”
“Secondo lei? L’uscita è in fondo a destra”.
“Ma… sono libero?”
“Secondo lei? Crede che possiamo trattenerla perché ha venduto del rum e mangiato dei dolcetti? Roba che neanche Orwell. Si tolga dai piedi”.
Forse è un trucco, forse in fondo a destra c’è la stanza 101. Del resto altre uscite non ci sono, quindi…
"Ma mi lasci dire una cosa, la sua generazione è una grande delusione".
"Eh?"
"Siete una mandria di perfettini che sfilate per il mondo coi vostri buoni sentimenti. Mai una vera compromissione con un regime dittatoriale, mai uno slogan veramente violento, mai un incitamento alla lotta armata. Non c'è uno solo di voi che abbia veramente le palle. Mi sono divertito di più quando indagavo sulle Orsoline. Vada, vada".
Non so perché, ma mi dispiace di averlo deluso.
“Scusi un attimo…”
“Che c’è ancora?”
“Continuerà a leggermi?”
Sbuffa. Preferirebbe di no, è chiaro. “Secondo lei?”
“Comunque cercherò di essere più coerente, in futuro”.
“Le conviene, davvero. Addio”.
“Allora io vado, eh?
“Ho giusto detto Addio”.
“Addio”.
Fuori è una bella giornata di maggio. Il polline mi fa starnutire. E mi pizzicano gli occhi. Mah.
Sembrava tanto una brava persona.
Certo che è terribile, questa sindrome di Rejkiavik (o era Copenaghen?)
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(Continua da ieri)

Allora feci proprio la cosa che non si deve assolutamente fare, cioè mollai le manine dei miei compagni e scappai: dove? Di qua, di là, ma sempre guardando in alto, per cui inciampai. Caddi per terra mentre cadeva il fumogeno (molto lontano). E mi feci male, stupidamente, perché caddi sulla strada di terra mettendo avanti le mani, e se avete giocato a pallone da bambini su un cortile di ghiaino potete immaginarvi quanto sia stupido e quanto faccia male. Ho ancora i segni sulle nocche del pugno, come se avessi dato un pugno a un felino selvatico.
Mi rialzai subito, rassicurai che non mi ero fatto niente, però ero tutto bagnato. Cadendo, avevo spappolato il limone che tenevo in tasca. Pantaloni bagnati e mano sanguinante: a 48 ore dalla partenza ero già lo zimbello della spedizione.
Il gas iniziava a farci tossire. E Marcella piangeva. Fin qui normale. Ma Marcella stava anche coprendosi di chiazze rosse.
“Marcella, non è che sei allergica a qualcosa, per caso”.
“Sì”.
“A cosa?”
“A varie cose”.
“Ah”.
Gli italiani si tenevano per mano, tranquilli. Dalla collina stava scendendo un inglese. Ancorché ridicolo, io ero comunque l’interprete.
“Che sta dicendo?”
“Dice che cerca volontari per andarsi a sedere contro il carro armato, laggiù”.
E Marcella, gli occhi rossi: “Ci andiamo?”
“Eh?”

Ci ritrovammo davanti a questo carro armato, col mitra che spuntava dalla feritoia, mentre un tizio da un blindo (un tipo non proprio brillante) insisteva a tirarci fumogeni controvento. C’erano due inglesi con buffe tute di plastica: ci avevano spiegato che se ci cadeva un fumogeno tra le gambe dovevamo cercare di passarlo a loro, che erano allenati a respingerli. Ci sedevamo, scattavamo foto, al lancio dei fumogeni indietreggevamo, e cercavamo di respingerli a calci. Marcella piangeva.
“Marcella, tu non stai tanto bene, forse è meglio se ce ne andiamo…”
“No, no, restiamo qui”.
Ogni tanto qualche palestinese passava, con la borsa della spesa o con un carrettino. Passava di fianco al tank, di fianco al blindo, in mezzo a noi, salutava, sorrideva, proseguiva. Una volta passato, la piccola battaglia ricominciava (come bambini in un cortile, che interrompono giochi e finzioni al passare degli adulti).
E mi ricordo questa cosa: a un certo punto un fumogeno arrivò addosso a uno degli inglesi ‘specalisti’, e questi lo afferrò al volo, con una mano, rilanciandolo subito al mittente. Forse non era inglese, forse era un americano, certe prese s’imparano col baseball.

Verso ora di pranzo gli israeliani ripartirono, e allora ripartimmo anche noi. Io ero pieno di dubbi. A cosa avevo partecipato? A una battaglia? se sì, non mi ero comportato molto onorevolmente. (M’infastidiva dover tornare dall’unica battaglia della mia vita coi pantaloni bagnati, seppure di limone). Se no, perché eravamo rimasti lì? Il posto di blocco era aperto già prima di noi. Non avevamo corso un rischio inutile, innervosendo gli israeliani, esponendo alla loro vendetta i palestinesi? Noi nel giro di una settimana ce ne saremmo andati; i ragazzini che avevano infierito sul posto di blocco restavano lì. Non era un po’ troppo comodo, questo atteggiamento da tuta bianca in vacanza?
E una sola certezza: gli inglesi (o gli americani) sono matti. Raccogliere i fumogeni al volo. Ma come ha fatto? Io se vedo un fumogeno a cinquanta metri su di me, me la squaglio.
“Va meglio, Marcella?”
“Secondo me dovevamo restare di più”.
“Ma cos’altro potevamo fare”.
“Non lo so. Però secondo me dovevamo restare di più”.

Venerdì scorso un altro pacifista ha “incrociato la traiettoria” di un proiettile israeliano. È il terzo in meno di un mese. È un altro segno che la vita degli Occidentali non è più sacra, che non non possono più giocare agli eroi, affrontare i carri armati a mani nude. Bin Laden ha annunciato al mondo questa verità, George W. Bush l’ha compresa, Ariel Sharon si adegua.
Tom Harindal era impegnato ad aiutare un gruppo di bambini palestinesi ad attraversare una strada esposta al fuoco. Pare che avesse una lunga esperienza di interposizione pacifica, in Palestina, in Giordania e in Iraq. Pensando a lui mi è venuto in mente quell’inglese (o era un americano?) che raccoglieva i fumogeni al volo. Mi serve pensare che forse l’ho conosciuto; mi aiuta a ricordare che la Palestina esiste, che Israele esiste, che la strada tra Ramallah e Bir Zeit ha continuato a esistere anche quando me ne sono andato, forse per non tornare mai più. Tom Harindal è morto, come avrei potuto morire io, o Marcella, quel giorno.
Ma attenzione, non vi chiedo d’indignarvi perché hanno ucciso Rachel Corrie e Tom Harindal, e ferito gravemente Brian Avery. Vi chiedo di pensare che nello stesso mese scarso hanno perso la vita 70 palestinesi, e non tutti erano terroristi. Alcuni erano bambini.

Con chi ha questo punto ha già la replica pronta, che anche gli israeliani muoiono negli attentati, vorrei condividere una riflessione: nemmeno la legge del taglione prevedeva punizioni più gravi del danno arrecato: come si può vendicare una strage con una strage ancora maggiore? Come si può distruggere la casa dei famigliari di un kamikaze? Su quale libro è stato scritto che la colpa del padre non deve cadere sul figlio?
Per voi questa è la guerra tra una democrazia e il fanatismo religioso. Per noi è solo una guerra tra poveri. Poveri ambiziosi e poveri disperati, che scambiano un Eden per un deserto, che si uccidono per il controllo di una sorgente o di una strada.

Gli interpositori pacifici non sono fiancheggiatori dei terroristi: è il contrario. Hanno cercato, in questi anni, di aiutare un popolo accecato di rabbia a praticare forme di resistenza non violenta. Non hanno mai messo in dubbio che Israele fosse una democrazia, anche se in crisi: o non si sarebbero presentati a mani nude davanti ai tank dell’esercito.
Hanno avuto fiducia nell’opinione pubblica israeliana e internazionale; hanno messo a disposizione i loro corpi, le loro vite che fino a qualche mese fa erano così preziose, e ora vengono sacrificate senza che nessuno ai piani alti abbia il coraggio di dire niente.
Oggi Sharon si dice pronto alla pace: non è la prima volta che ne parla, non è la prima volta che accenna a un vago “ritiro dai territori” rifiutandosi di scendere nei dettagli, non è la prima volta che cerca di regalare deserto in cambio di sorgenti. Si può discutere la pace con un ladro e un assassino? Io voglio credere di sì. Se ho creduto che si potesse contenere Saddam Hussein, non vedo perché non si dovrebbe dare una chance ad Ariel Sharon.
Ma quando si farà, questa pace (se si farà), io vorrei che accanto ai nomi dei gloriosi pacificatori del Medio Oriente, Sharon, Bush e Blair, ci si ricordasse di quegli inglesi e di quegli americani che hanno avuto la fantasia di credere alla pace e alla libertà quando sembravano impossibili, e che hanno pagato la loro fantasia con la vita. Tom Harindal, Rachel Corrie. Se un giorno ci saranno strade libere, tra Palestina e Israele, e i poveri un po’ meno poveri e un po’ più indaffarati saranno liberi di percorrerle senza più blocchi, vorrei che due di queste strade portassero il vostro nome. Per quanto ingenuo, per quanto pazzo, il vostro Occidente è l’unico al quale sono fiero di appartenere.
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Ho tirato giù un posto di blocco israeliano (e cosa c’è di male)
Per ricordare Tom Horindal: prima parte

Quando mi sono trovato davanti ai carri armati, io, non mi sono comportato tanto bene.
Del resto non volevo neanche andarci. Tutta colpa di Marcella.

“Il 27 dicembre del 2001 gli studenti di Ramallah che rientravano dalle vacanze di Natale trovarono un posto di blocco sulla strada per l’università di Bir Zeit, e allora…”
”Che palle, nonno, sempre la stessa storia…”
“Zitti, che è importante”.

Il 27 dicembre 2001 gli studenti di Ramallah chiesero alla delegazione di Action For Peace di fare opera di interposizione a quel posto di blocco l’indomani. Quella sera stavo giusto tornando dopo il mio primo pellegrinaggio alla città vecchia, assai fiero di aver rintracciato l’albergo da solo, dopo essermi alienato dai compagni in un internet cafè. Nella hall Marcella stava leggendo sulla lavagna il programma del giorno successivo: c’era un cambiamento. Un gruppo, invece di andare a Nabius, come previsto, si sarebbe recato al posto di blocco tra Ramallah e Bir Zeit. Quest’ultima era un’operazione delicata; c’era il concreto rischio di dover fronteggiare l’esercito israeliano, perciò servivano persone con una certa esperienza, un certo coraggio, una certa determinazione. Insomma, non si stava parlando di me.
Però Marcella si voltò e mi chiese: “Andiamo a Ramallah, domani?”
“Eh?”

Prima che pensiate male, l’antefatto: io e Marcella ci eravamo presentati il giorno prima, alla stazione di Modena. A Modena ci si conosce tutti di faccia, ma a parte la faccia, io non la conoscevo. Conoscevo invece il suo ragazzo, il quale, salutandoci, “Mi raccomando” aveva detto, “attento che non si metta nei guai”. Sono cose che a trent’anni si dicono per scherzo. E poi, anche senza conoscere molto di più della sua faccia, non credevo che Marcella potesse mai mettersi nei guai. Ha un volto molto buono, un’aria serafica, non credo di averla mai vista scandire uno slogan a un corteo. Però il 28 dicembre 2000 voleva andare a Ramallah, e io mica potevo dirle di andare da sola, quindi…

“Si marcia in fila indiana fino al posto di blocco, poi ci si piazza ai bordi e si cerca di far passare i palestinesi. È probabile che tirino fumogeni, ma la cosa a cui dovete stare attenti sono le bombe assordanti: oggi me ne hanno tirata una, mi sembra di aver perso l’uso di un orecchio. Mah, speriamo mi passi. Guai a dividersi. Guai a scappare. Solo chi scappa si mette in pericolo. L’importante è restare uniti. Domande?”
“Ehm… e se caricano?”
“L’importante è restare uniti”.

La periferia di Ramallah è una città finta, un cantiere abbandonato: qualcuno aveva pensato che dopo Camp David ai palestinesi sarebbe piaciuto venire ad abitare in un appartamento nel centro più dinamico della Palestina, a 15 minuti d’auto da Gerusalemme. Ma Camp David era un bluff, coi posti di blocco i 15 minuti sono diventati tre ore, i palestinesi non hanno più potuto lavorare in Israele, quegli appartamenti erano stati abbandonati a metà, quando li ho visti, la mattina del 28 dicembre 2001. I rappresentanti degli studenti ci erano venuti incontro con una buona notizia: gli israeliani avevano lasciato il posto di blocco. Sapevano di certo che eravamo diretti lì, e non volevano avere delle noie.
D’altro canto noi ormai lì c’eravamo. Iniziammo a marciare in fila indiana, con le nostre ridicole pettorine bianche con la scritta “Italian Delegation”. Noi italiani eravamo il grosso della spedizione: l’età media era sopra i quaranta. I francesi erano molti meno, e facevano molta più confusione (più di una volta ci avrebbero messo nei guai). Inglesi e americani si sentivano poco, ma – come stavo per rendermi conto – erano i più pazzi. Qualcuno distribuiva limoni, questi famosi limoni che dovrebbero fare da antidoto ai fumogeni, anche se nessuno sa mai dirti come. Io, per non saper leggere né scrivere, me ne ero messo in tasca uno. Marcella marciava davanti a me.
“Tutto bene?”
“Sì, perché?”

Giunti al posto di blocco ci piazzammo lì, due file di pacifisti mano nella mano. In mezzo la gente passava. La maggior parte non erano studenti, ma donne con bambini, operai, ragazzini. E c’era anche qualche testa calda, ovviamente. Il posto di blocco, in cemento, era stato abbandonato: buttarlo giù era una tentazione troppo forte (d’altronde era un posto di blocco con la bandiera israeliana in un territorio amministrato dall’Autonomia Palestinese). Ma siccome sulla collina c’era un blindo israeliano, armato di videocamera, bisognava evitare che qualche ragazzino del posto si lasciasse inquadrare mentre distruggeva qualcosa. I ragazzini finiscono in carcere anche per meno.
“Lasciate, è meglio se lo distruggiamo noi”
Lì si videro attempati padri di famiglia, con la bandiera della pace a mò di mantello, metter mano a travi e spranghe e buttar giù quello che potevano. (Ma io e Marcella continuavamo a tenerci per mano, salvo quando ci capitava di scattare una foto). Ma la cosa non poteva che eccitare ancor di più i palestinesi, che a un certo punto attaccarono la guardina, buttandola giù a spallate e dandole fuoco. A quel punto, da sopra la collina, iniziarono a spuntare altri blindi e un carro armato. E noi continuavamo a tenerci per mano, come bambini.

Partì un fumogeno, lo vedemmo salire, salire, e poi scendere, a pochi metri da noi. Continuammo a tenerci per mano.
Ne partì un altro, io lo vidi salire, e mentre scendeva cercai di calcolare dove sarebbe finito, ed ebbi la sensazione precisa che sarebbe finito su di me. (Continua)
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Forza Occidente (alè alè)

Non bisogna crederlo stupido, non lo è. Ha un’intelligenza pratica, intuitiva, brillante: ma anche grossolana, priva di quelle finezze che si apprezzano negli uomini di mondo. La parola esatta dovrebbe essere “furbacchione”, o “furbastro”: abbastanza furbo da essersi preso più volte gioco di tanti più astuti e sottili di lui. Ma anche abbastanza grossolano da farci cascare le braccia, ogni volta che dichiara qualcosa. Di chi sto parlando? Ma del Capo, no? Se n’è stato in silenzio per tutta la guerra, e appena ha visto Baghdad libera, eccolo qui: pronto a dire che la guerra in Iraq l’ha vinta lui e l’ha persa il Centrosinistra.

Ecco allora che insieme ai "rallegramenti" per quella che il premier definisce "la fine della guerra", e alla rivendicazione di una "posizione filoamericana risultata vincente", il capo del governo spende molte parole per polemizzare con il centrosinistra, colpevole, a suo parere, di "non aver manifestato la nostra stessa allegrezza, perché evidentemente non ha apprezzato compiutamente il senso della liberazione di un popolo".

Vogliamo dire una piccola verità? A parte l’indubbio merito di essere stato zitto quando c’era da tacere, e avere festeggiato quando c’era da festeggiare, il filoamericano Berlusconi non ha fatto un bel niente per l’America. Più che un alleato, è stato un tifoso. Il suo sostegno alla coalizione ha avuto l’importanza che può avere, durante Milan-Nocerina, un signore calvo sulla sessantina con una sciarpa rossonera sul quarto anello di San Siro. Questo spiega anche gli sfottò al centrosinistra, che hanno il senso del gesto dell’ombrello che si mostra ai tifosi avversari: io rido, tu piangi, tiè.

E se la coalizione avesse perso? Impossibile. Ma se avesse perso in termini di immagine, logorandosi in una guerra lunga e ancora più sanguinosa? Allora l’anziano signore avrebbe riposto con fare circospetto la sua sciarpina nella borsa, e sarebbe uscito dallo stadio senza farsi notare. E tu chiamalo scemo. Per non sapere leggere e scrivere, Berlusconi ha capito perfettamente come funziona la diplomazia.

Così le settimane della guerra, e quelle che l'hanno preceduta, dimostrano che "la sinistra è in una crisi profonda", e che, "se ci fosse un Blair nella sinistra italiana, dovrebbe battere un colpo".

Ecco un lapsus interessante. Tony Blair non è soltanto il leader della sinistra inglese (ammesso che lo sia ancora); è anche, e soprattutto, il capo dell’esecutivo del Regno Unito. Lamentandosi della mancanza di un Blair italiano, Berlusconi non si rende conto (o finge di non rendersi conto) che quel Blair poteva benissimo farlo lui. Se era così persuaso della necessità di un’invasione cruentissima, perché non se n’è fatto promotore in Italia, come Blair a Londra? Perché se n’è stato sulle sue, mentre Blair, Bush e perfino Aznar confabulavano alle Azzorre? Già, perché? Perché è un furbastro, il nostro grande capo. Sa benissimo di essere il Presidente non di una nazione di guerrieri della libertà, ma di sessantenni come lui, a cui si può chiedere al massimo di sfoggiare la sciarpina coi colori dell’Occidente. Ha dato un occhio ai sondaggi, ha contato i giorni dalle elezioni, e ha pensato: col cavolo che mi metto nei guai per venti milioni di arabi che neanche so dove stanno sull’atlante. Son mica un petroliere, io, io vendo emozioni. La guerra mi piace giusto giusto alle sette di sera su Retequattro. (Anche perché, mentre a sinistra si discettava di guerra lunga, breve, media, ecc., lui era già in giro in campagna elettorale).

In questi giorni si sono viste casacche di ogni colore in Golfo. Perfino tedeschi e (mi pare) francesi, tanto polemici nei confronti dell’invasione, hanno reso qualche servizio nelle retrovie. L’Italia, niente. L’Italia suonava la trombetta dagli spalti. In un certo senso Berlusconi è stato l’unico vero governante pacifista. Di un pacifismo autentico, viscerale, antieroico: il pacifismo dell’otto settembre: tutti a casa, che la mamma sta in pensiero.

Purtroppo c’è un purtroppo: non sempre si può restare sul quarto anello: presto o tardi questi noiosi alleati chiedono il conto, in termini di “contingenti di pace”. L’Afganistan ce l’ha insegnato, ormai si è rassegnato anche il Ministro Martino, l’idolo di tutte le mamme e le nonne d’Italia: inutile cercare di sottrarsi.

Tornando all'Iraq, il presidente del Consiglio spiega che c'è la disponibilità del governo, "dopo un voto del Parlamento", a fornire un contingente di pace, perché "da tempo sia gli Stati Uniti che la Gran Bretagna, ci hanno rivolto la richiesta di inviare soldati dopo la guerra"; ma sulla richiesta alleata di inviare i Carabinieri, di cui si parla da ieri, non si sbilancia: "Sono famosi per il loro operato, ma è presto per dire quale Corpo sarà mandato in Iraq".

Non so se è una mia suggestione, ma mi sembra di leggere tra le righe il piccolo fastidio di doversi decidere a mandare in giro carabinieri o altri, a rischio che qualcuno inciampi in un fucile carico, o venga ucciso in un agguato, o venga sorpreso a torturare nativi, o qualsiasi altra cosa per cui le nostre forze armate sono conosciute nel mondo.
[Probabilmente fanno anche bellissime cose, i nostri militari, ma è sempre il peggio a fare notizia].

E qui finisce la speranza (ridicola speranza) di un Presidente pacifista, che pur plaudendo alla lodevole iniziativa di Iraqi Freedom, se ne stava in disparte e ci teneva al riparo dai venti di guerra. Berlusconi non sa, o finge di non sapere, che la differenza tra “guerra” e “pacificazione” è puramente nominale: dicesi “guerra” quella sotto i riflettori di tutto il mondo, con un sacco di giornalisti rompicoglioni che attizzano i sensori dei carri armati intelligenti. La “guerra” finisce con la presa della capitale, una chiassata in piazza e qualche pittoresco saccheggio. Dopodiché le truppe scelte e la maggior parte dei giornalisti se ne va (svelti, che c’è la Siria in cartellone), e ha inizio la “pacificazione”, che dura anni e anni e miete vittime su vittime, senza che nessuno si prenda più la briga di contarle.

(Per maggiori dettagli sulla “pacificazione”, consiglio di consultare WarNews alla voce Afganistan. Così, già che ci siamo, possiamo anche renderci conto in che inferno abbiamo mandato i nostri cari Alpini, in missione di pace).
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First we take Bassora, then... (terza e ultima parte)

E fu così che cominciò, la prima guerra del Mediterraneo. E fu (a seconda del punto di vista) lunga, breve, giusta, sbagliata, preventiva, mal preventivata, disumana, umanitaria, e tante altre cose ancora.
La prima settimana ci furono esplosioni spettacolari, che fecero il giro del mondo, anche perché quel Bel Paese era pieno di location formidabili, vecchi monumenti, ruderi di antiche civiltà, l’ideale per il set di un kolossal.

Non morì tanta gente, ma anche qui, è questione di punti di vista. Tre persone sono poche, finché non sono tua madre, tuo figlio, il tuo compagno. Le persone che morirono in quei palazzi erano tutte madri, figli, compagni di qualcuno. E i sopravvissuti, gli abitanti di quella Repubblica fondata sul Lavoro (e quindi precaria) osservarono che, anche se lo avevano sempre saputo, era come se non se ne fossero mai resi conto. E cominciavano a perdere la calma.

You loved me as a loser, but now you're worried that I just might win.
You know the way to stop me, but you don't have the discipline.
How many nights I prayed for this, to let my work begin.
First we take Bassora...


Figurarsi il Presidente. Lui, che non era mai stato una cima, ora, con l’età e con lo stress, sragionava; e nessuno se ne curava, perché chi era al suo seguito aveva dovuto divorziare dal senso critico troppi anni prima; e poi era sempre troppo divertente per fermarlo. Ora, per esempio, vedeva complotti comunisti dappertutto. C’era una logica in questa follia: se l’Iperpotenza attaccava, un motivo c’era senz’altro: e questo motivo non potevano che essere i comunisti.

Quando le prime portaerei furono avvistate al largo, il Presidente fu colto dal panico. Non temeva i bombardamenti: aveva i suoi bunker, come ogni leader di un certo rango. Quello che lo angustiava erano appunto i comunisti. I rapporti dei servizi parlavano di frange antagoniste decise a resistere ora e sempre. Questo non era bello. Che figura ci avremmo fatto con gli invasori? Il Presidente diede disposizioni chiare e concise: “Fermate, con ogni mezzo possibile, chi cerca di stabilire nel nostro bel Paese un Regime”. E si diede alla macchia. (C’è chi dice che un giorno tornerà, a bordo di un panfilo, cantando una canzone, e libererà il Paese dal male. Ma c’è anche chi beve troppo).

Quando i marines sbarcarono, trovarono ad aspettarli un esercito fortemente perplesso.
I graduati, in particolare, erano in crisi. Leggevano e rileggevano l’ultimo ordine “Fermate, con ogni mezzo possibile, chi cerca di stabilire nel nostro bel Paese un Regime”, e non riuscivano a venirne a capo. Significava che dovevano tirare sugli iperpotenti? O sui comunisti? O su loro stessi? Chi decise per l’una, chi per l’altra: iniziarono a spararsi tra loro. Del resto anche i marines, nel dubbio, miravano tutti.

Gli antagonisti veri, quelli che avevano promesso di ricacciare gli iperpotenti in mare, si presentarono in qualche migliaio sulla spiaggia con scudi di plexiglass e striscioni e furono testé asfaltati. Nel luogo del loro sublime sacrificio oggi c’è il parcheggio di un multisala (ma qualche vecchietta continua ad appoggiare corone di fiori al semaforo).

Non mancò comunque – specie negli ultimi giorni – chi cercò davvero di combattere l’invasore, con le armi di fortuna: poca, quest'ultima. Alcuni ce l’avevano con l’Iperpotenza per motivi ideologici; altri per sordo senso del dovere; ma la maggior parte era semplicemente arrabbiata per le solite banalità, i bombardamenti, i figli morti, le case distrutte, ecc-... Come ogni battaglia disperata, attirava anche i fanatici: ci furono attacchi suicidi, attentati, stragi. In situazioni del genere c’è sempre gente a cui il senso dell’onore suggerisce le azioni più scellerate.

Remember me? I used to live for music.
Remember me? I brought your groceries in.
It's Father's Day, and everybody's wounded.
First we take Bassora...


Ma insomma, un bel giorno finì. Ricordo come fosse oggi quando, entrati nella capitale, i soldati iperpotenti si accanirono contro un monumento, pensando che si trattasse dell’effigie del dittatore locale. Si trattava in realtà dell’imperatore di un’antica iperpotenza, di cui nessuna delle reclute aveva mai sentito parlare (del resto, se avessero fatto una buona scuola, non si sarebbero trovati un lavoro così schifoso).
Intorno a loro si era radunata una piccola folla festante: demolire l’arredo urbano era un’antica passione di quel popolo, e poi quelle statue, sempre uguali, alla lunga stancano. Era un bel giorno di sole, e non c’era scuola. I bambini giocavano a nascondino tra le rovine antiche e nuove. La radio mandava le buone notizie sul fronte nord: intorno alla città chiamata Berghem erano stati scoperti sterminati magazzini di armi convenzionali e non, stoccate e pronte per l’esportazione. Le ultime sacche di resistenza celtiche erano state debellate: tanto che nel Paese praticamente non c’erano più Celti (come vent’anni prima, del resto). Il loro leader era fuggito in un Paese confinante, che però fu invaso l’anno dopo. La sua vita raminga è continuata per molti anni, ma ultimamente sembra aver trovato un’occupazione stabile come pizzaiolo ad Algeri (in un primo momento aveva provato con la polenta, ma gliela tiravano dietro).

And I thank you for the items that you sent me:
the monkey and the plywood violin.
I practised every night now I'm ready. First we take Bassora....


Nei giorni successivi, l’iperpotenza si pose il problema di che assetto dare alla nuova provin… alla nuova nazione libera. Venne convocata un’assemblea dei capi-tribù di ogni regione, che dopo una ponderata riflessione, elesse come capo temporaneo l’ex erede al trono. Costui, previdente, era riuscito a tornare nel bel Paese qualche anno prima, per girare uno spot di sottaceti.

Con lui, le cose migliorarono sensibilmente. Il monopolio tv scomparì: tutte le reti furono comprate da un monopolista internazionale. I mafiosi e gli altri utenti del carcere duro uscirono dalle celle, per entrare in recinti di polli approvati dalla Croce Rossa Internazionale. Fu emanato un nuovo severissimo Codice Della Strada, ma siccome il Paese era ancora pieno di reclute dell’iperpotenza che in licenza amavano scatenarsi (come nessuno gli permetteva a casa loro), il sabato sera i vigili chiudevano tutti e due gli occhi.

Quindici anni dopo le risorse petrolifere mondiali si esaurirono, e ancora il motore all'idrogeno non era pronto. Per alcuni anni i combustibili più importanti furono il carbone e il metano. Il Bel Paese conobbe una fase di insperato benessere, grazie anche ai nuovi investitori stranieri, che vi avevano cercato e trovato i più grandi giacimenti metaniferi del mondo. E la nostra storia finisce così. Perdonata se vi è parsa lunga, faziosa, irrealistica. Tenete per vero che non s’è fatto apposta.
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antiamericani a New YorkDomande più frequenti (2)

Dov’eravate quando la NATO bombardava la Serbia?

Alcuni erano qui, altri erano via, alcuni erano contro i bombardamenti, altri pensavano che fossero giusti. Il dibattito fu feroce, ma è proprio il caso di riaprirlo adesso? La situazione in Iraq è molto diversa.
Ma anche se, per assurdo, avessimo sostenuto tutti la Nato in quell’occasione: e allora? Non ci sarebbe consentito cambiare idea? Molti che espongono bandiere ai balconi non l’avrebbero sicuramente esposta nel 1991 o nel 1999. Ma il pacifismo in Italia è cresciuto anche perché i Paesi Occidentali ultimamente viaggiano al ritmo di una guerra all’anno: una cosa mai vista sui libri di Storia.
E allora attenti, perché in democrazia sono proprio le persone che cambiano idea a far vincere o perdere le elezioni. Dov’eravamo ai tempi della Cecenia, della Bosnia, del Ruanda, del Congo, delle Falkland? Non sono fatti vostri. Adesso siamo qui, è questo il problema.
(Perché invece, voi dov’eravate ai tempi della Cecenia, della Bosnia, del Ruanda, del Congo, delle Falkland?)

Siete sicuri di non essere anti-americani?

E l’America è sicura di non peccare di arroganza? Sempre, davanti all’ostentazione del potere, qualcuno storce la bocca. Un grande potere dev’essere gestito con molta saggezza, per evitare di destare intorno a sé invidia e rancore. In passato, negli USA, ci sono state amministrazioni che hanno dato prova di questa saggezza. Non è il caso dell’amministrazione Bush jr.
L’opposizione all’America, in ogni caso, non è dettata dalla semplice invidia (così come il vostro filoamericanismo non è necessariamente servilismo). La politica estera dell’amministrazione Bush jr è tutt’uno con la politica interna e con il modello economico che sottende. La guerra è il modo in cui il gigante proclama al mondo che “il tenore di vita dei cittadini americani non è in discussione”. Noi, se ci permettete, non siamo d’accordo.
Poi, certo, finché siamo cittadini occidentali istruiti siamo anche in grado di distinguere tra un’amministrazione americana (che ci sta antipatica) e il popolo americano (che adoriamo, col suo cinema, la sua musica e la sua letteratura). I ragazzi nati nei campi profughi di Gaza non sono in grado di fare questa distinzione. E i ragazzi nascono nei campi profughi di Gaza da cinquant’anni.

E siete sicuri di essere meglio degli americani? Anche voi consumate petrolio. Non trovate che gli americani stiano combattendo anche per voi?

Il nostro stile di vita è molto simile a quello degli USA. Ma mentre cerchiamo di moderare i nostri consumi, non possiamo fingere di non vedere che gli americani si accaparrano il 60% delle risorse mondiali. La loro avidità crea un forte squilibrio nel mondo, e li rende impopolari presso una parte crescente della popolazione mondiale. Nei Paesi meno sviluppati questa impopolarità prende la forma dell’integralismo religioso; in Occidente dà vita ai movimenti di protesta. Gli USA (e i loro Paesi satellite) devono combattere contro gli uni e gli altri, e nel frattempo accaparrarsi le risorse necessarie a mantenere il proprio status di superpotenza. La guerra in Iraq non è che un fotogramma di questo lungo conflitto, che è iniziato anche prima dell’11 settembre.

Ma allora voi e Bin Laden siete dalla stessa parte…

No. Noi e Bin Laden non parliamo la stessa lingua e non saremmo in grado di capirci. Il fatto che anche lui attacchi l’egemonia USA non ce lo rende in nessun modo più vicino a noi. Dal nostro punto di vista c’è più distanza tra noi e lui che tra lui e Bush. Del resto sono stati gli USA a inventarlo, e non è escluso che in futuro tornino a usarlo contro di noi. Come fa ogni capetto locale quando grida all’intelligenza fra sinistra pacifista e terrorismo islamico: è una demonizzazione dell’avversario indegna di una democrazia, e di chi si sente così ricco di democrazia da volerne anche esportare.

Come ci si sente a essere la seconda superpotenza mondiale?

Hai letto troppi giornali. Noi non siamo la seconda superpotenza, siamo ancora una potenza di terzo o quart’ordine. Ma in questa fase storica siamo gli unici che possono diventare una superpotenza senza correre il rischio di essere bombardati preventivamente.
È per questo che facciamo un po’ paura ai nostri governi. Non tanta paura: appena un po’.

C’è altro?
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Domande più Frequenti (ai pacifisti)
mi piacerebbe rispondere una volta per tutte e che non se ne parlasse più:

Ora che la guerra è iniziata, che senso ha continuare a manifestare? Non è meglio sperare che sia rapida ed efficace?

Come chiedere a un appestato: ora che hai contratto il morbo, perché continui a lamentarti? Mettiti lì calmo e aspetta che il male faccia il suo corso. Il fatto di aver contratto il virus – dopo aver fatto il possibile per evitarlo – ci dà un motivo in più per essere arrabbiati contro i nostri governi. Non è che la guerra smetta di essere una vergogna soltanto perché è già iniziata.

Ma che speranze concrete ci sono di fermare la guerra in questo momento?

Nessuna. Ma erano scarsissime anche un mese fa.
Questa guerra era nelle agende dei leader occidentali già da quest’estate. Difficilmente avrebbero cambiato idea, anche perché non c’erano elezioni in vista (solo in Germania, dove non a caso Schroeder ha vinto dichiarandosi contrario al conflitto). È solo attraverso una pressione costante del movimento pacifista che si riuscirà a evitare non questa guerra, ma la prossima, o la prossima ancora. Proprio per questo motivo non dobbiamo mollare la presa proprio adesso.

Come potete negare la legittimità di questo intervento militare, quando la risoluzione 1441 prevedeva l’uso della f...

Dai, basta. Non è che perché siamo pacifisti dobbiamo berci tutto quello che è stato detto in questi mesi, compresa la manfrina diplomatica.
È chiaro che gli USA e il Regno Unito volevano la guerra (non hanno mai smesso un attimo di prepararla sul campo), è chiaro che gli serviva un casus belli e che al momento giusto l’avrebbero trovato. Ma tutta la faccenda, a guardarla con un certo distacco, è assurda. Come si può chiedere a un dittatore di disarmare proprio mentre i suoi nemici accumulano armi ai confini e continuano a dichiarare un giorno sì e un giorno no le loro intenzioni bellicose? È quello che Bush e Blair hanno fatto per mesi. La cosa paradossale è che gli iracheni hanno perfino assecondato qualche richiesta degli ispettori, quando era chiaro che Usa e Regno Unito non sarebbero mai stati soddisfatti (e infatti hanno aumentato via via le loro richieste).
In realtà questa guerra è condotta dagli angloamericani su due fronti: il primo fronte è l’Iraq, il secondo sono le istituzioni internazionali. L’attacco all’Iraq è anche un attacco alla legittimità dell’Onu.

Criticate, criticate, ma alla fine non avete nessuna proposta concreta.

È un segno di scarsa fantasia (e quindi di scarsa intelligenza) ritenere che non ci siano proposte alternative all’uso indiscriminato della forza. Ce ne sono svariate, e se non sono ‘concrete’ è semplicemente perché non sono mai state realizzate.
Certo, bisognava pensarci un po’ per tempo. Finanziare partiti democratici (come ha fatto la Nato in Italia nel dopoguerra), invece di sostenere Saddam Hussein. Investire nello sviluppo di una classe media, che invece è scomparsa con l’embargo. Oggi la situazione è disperata, e sembra non lasciare alternative concrete all’uso della forza. Ma di chi è la colpa?
(E poi chissà: magari si potrebbe togliere l’embargo, mandare aiuti a pioggia in cambio di concessioni democratiche, inviare ispettori non solo negli arsenali, ma anche fuori dalle cabine elettorali. Tante cose si potrebbero provare, invece di metter subito mano all’uranio impoverito).

Perché voi pacifisti non avete manifestato anche per l’esilio di Saddam Hussein, come ha fatto, per esempio, Marco Pannella?

Perché è ingenuo credere che Saddam Hussein, insensibile al dolore del suo popolo e a tante risoluzioni dell’ONU, avrebbe tenuto conto dalle manifestazioni dei pacifisti occidentali. Pannella, che ha a cuore prima di tutto la visibilità internazionale del suo piccolo partito, fa un’altra valutazione.
Questo non significa, naturalmente, che i pacifisti non abbiano sperato nelle trattative diplomatiche: ma la diplomazia non si fa nelle piazze e non devono farla i manifestanti. Il ruolo dei manifestanti è dire “no” alla guerra. Spetta poi ai politici e ai diplomatici recepire questo “no” e articolarlo in proposte concrete.

Nel mondo ci sono decine e decine di conflitti in corso. Perché vi mobilitate soltanto per l’Iraq (e in genere per tutte le guerre in cui sono coinvolti gli USA)?

I principali obiettivi di una manifestazione sono sempre due: l’opinione pubblica e il governo del Paese in cui la manifestazione si svolge.
I pacifisti non si mobilitano per questioni di principio (contro “la guerra” in generale), ma ogni qual volta ritengano possibile fermare concretamente una guerra, sensibilizzando l’opinione pubblica e facendo sentire la propria voce al governo. Per questo preferiscono protestare contro le guerre che vedono la partecipazione attiva o passiva dell’Italia e dei suoi principali alleati: i paesi Occidentali. È appunto il caso della guerra in Iraq.
Prendiamo invece un altro fronte del mondo, a caso: la guerra civile in Colombia. Che senso avrebbe manifestare davanti al parlamento italiano per la pace in Colombia? Il governo avrebbe ben poche possibilità di influire sul conflitto in corso.
Questo non significa che i pacifisti dimentichino le decine di conflitti in corso nel mondo, alcuni dei quali più sanguinosi della guerra in Iraq; da anni fanno informazione su alcuni di questi conflitti, mettendo in luce le responsabilità dei paesi Occidentali e di alcune compagnie transnazionali, di cui propongono il boicottaggio. Se però oggi si parla soprattutto dell’Iraq, non è certo per colpa dei pacifisti... (continua)
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Pacifisti e Vincenti

(Intanto in Senato votano la 185...)

I Pacifisti dovrebbero essere persone tranquille, pacate.
I Vincenti dovrebbero essere persone sicure di sé, serene.
E siccome gli italiani si dividono in Pacifisti e in Vincenti (che nessuno si sogna di dichiararsi guerrafondaio, o di stare dalla parte del perdente), i dibattiti dovrebbero svolgersi in un clima di sbadigliante serenità. E invece.
E invece ai pacifisti capita d’incazzarsi, e parecchio, come se la pace riguardasse solo la politica estera e non il nostro quotidiano; e ai vincenti capita di replicare istericamente, come se, in luogo di un poker d’assi, si trovassero in mano una coppia di sette, o giù di lì. Qualcosa non va.
E intanto bombardano. Ma questo non significa che dobbiamo farci la guerra anche tra noi, (e che guerra patetica sarebbe). Qualche concessione a vicenda potremmo pure farcela.
Io, per esempio, che sono un pacifista (anche se tante volte m’incazzo) potrei, in linea teorica potrei, riconoscere che la scelta di intervenire subito da terra, riducendo le perdite civili, è una cosa positiva. Ecco, l’ho detto (e non è stato facile). Proprio perché la guerra non mi piace, e perché trovo che le guerre più ipocrite della storia siano stati i massicci bombardamenti dell’Iraq (1991), della Serbia (1999), e in parte dell’Afganistan.

In cambio, però, chiederei da parte dei Vincenti una maggiore sobrietà. Perché non c’è nulla da festeggiare in un bombardamento. Le persone educate, se proprio devono appoggiare un bombardamento, lo fanno a mezza voce, con espressione contrita. Perché il bombardamento è per prima cosa l’ammissione di una sconfitta. La sconfitta della politica di contenimento delle amministrazioni americane dal ’91 in poi. La sconfitta dell’embargo, che ha affamato centinaia di migliaia di persone e non è riuscito a sconfiggere il regime. La sconfitta di tutto un modo di gestire il Medio Oriente, che viene da lontano, dagli anni Ottanta e forse anche prima.
Noi occidentali abbiamo sbagliato tutto in Iraq. Abbiamo appoggiato un despota sanguinario, lo abbiamo spinto a combattere contro l’Iran, gli abbiamo fornito i mezzi per reprimere le minoranze e il dissenso nel suo Paese. Quando ce ne siamo stancati gli abbiamo tirato la sòla del Kuwait, lo abbiamo bombardato al tappeto, e poi lo abbiamo lasciato lì, a marcire col suo popolo. Finché all’improvviso non ci è venuta voglia di portare la democrazia nel Medio Oriente… andiamo. Con questi bombardamenti non facciamo che mettere una pezza, che si attacca ad altre pezze messe male, che fanno del Medio Oriente una delle regioni più pasticciate del mondo, e della comunità araba una polveriera umana. Non c’è nulla di cui andare fieri.

Tanto più che voi non siete esattamente i Vincenti, ma soltanto i tifosi locali, e non vestite in grigioverde, non pilotate gli Stealth, vi va già grassa se in tv vi fanno vedere i missili con gli infrarossi. Le vostre bandiere americane sono soltanto un simpatico attestato di stima, che non cambia di un millimetro quello che era già stato deciso dagli strateghi militari mesi e mesi fa.
Mentre le nostre pacchiane bandiere arcobaleno – questo dovete riconoscercelo – giorno dopo giorno hanno scalfito la sicurezza di un governo prima filoamericano, poi sempre meno entusiasta della guerra. Senza le nostre bandiere Berlusconi sarebbe stato il quarto ospite al vertice delle Azzorre (se hanno invitato una mezzasega come Aznar potevano invitare anche lui). Invece il nostro amato presidente è rimasto a casa, a dichiarare la “non belligeranza” alle Camere blindate.

La guerra, comunque, non l’abbiamo impedita. Questo lo ammettiamo tranquillamente. Anche voi, potreste ammettere tranquillamente che non siete riusciti a convincere la maggior parte degli italiani, così come il vostro Bush non è riuscito a convincere la maggior parte della comunità internazionale. Forse la colpa non è solo dei pacifisti ignavi e stupidi; forse è anche un po’ vostra: magari non siete stati abbastanza convincenti. Magari siete stati un po’ troppo supponenti. Tante volte avete fatto capire che le bandiere arcobaleno vi facevano perdere la calma, e questo è un segno di debolezza. Ma i Vincenti non possono mostrare debolezza. Noi sì, noi possiamo. È il nostro piccolo vantaggio.
Eppure, forse, ogni tanto qualche dubbio farebbe bene anche a voi. Per esempio: siete sicuri che l’Iraq liberato sarà una democrazia? Da dove salterà fuori il ceto medio necessario a esprimere una classe dirigente democratica? Non è più probabile che le masse dei profughi subiscano il richiamo del fondamentalismo islamico, come purtroppo è successo in Palestina? Avete le prove per dimostrare che le cose andranno come desiderate voi? Studi sociologici, statistiche, previsioni scientifiche? No. Andate avanti per sentito dire. Come anche noi, del resto. Ma allora un po’ di dubbio farebbe bene a entrambi.
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Alle quattro del mattino, ora italiana, si sente dire che bombardano Bagdad.

Io, che non sempre ho cose intelligenti da dire, passo la palla al vecchio Defarge:

Il monopolio della realtà

A questo punto è una questione di ore, poi i missili cominceranno a fischiare. Missili convenzionali, missili cui manca qualche trascurabile diottria, missili con una scritta divertente e liberatoria, ³in culo a Saddam² o ragazzate affini. Due o tre di questi missili rovineranno subito sul Ministero dell¹Informazione, tranciando i cavi che permettono a Saddam di cucinare le notizie di guerra e di drogare l'opinione dei suoi sudditi. Dalle competizioni eletorali alla guerra, la superficie sulla quale si estende il dominio della rappresentazione deve essere totale, senza increspature e zone franche, tanto da tramutarsi in una vera e propria privatizzazione della realta'. A settembre, quando i ministri dei paesi che aderiscono al WTO si troveranno a Cancun, in Messico, per aggiornare l'elenco dei servizi privatizzabili, bisognera' che qualcuno lo dica: la realta' non e' in vendita, se ne sono esaurite le scorte. Chi gestisce il telecomando e' il vero padrone di casa. I padroni della realta' controllano il modo in cui viene rappresentata e rendono narcotica la sovranita' del padrone di casa. C¹e' tutta una storia della guerra a luci soffuse che comincia con l¹invasione delle Malvinas, passa per il Kossovo e la Cecenia e arriva a Kabul...

Non e' solo una storia di falsi e di contrabbandieri, ma un romanzo dozzinale di ciechi e di black-out che arrivano a scioglierne l'intreccio. Oggi quel romanzo ricomincia: bisogna tagliare la lingua di Saddam, per questo il Ministero dell¹Informazione rimane uno dei target più prevedibili. Poi la guerra delle notizie tracimera' in un secondo tempo, più delicato e paradossale: quello in cui chi e' bombardato riceve informazioni, sul fatto di essere bombardato, da chi lo bombarda. Non tramite la tivu', la radio, gli SMS, il satellite o internet. Niente di tutto questo. Probabilmente - visto che da qualche giorno se ne fa un uso massiccio in alcune zone del paese - verra' rispolverato lo stesso mass-media adoperato dal generale Alexander, nel 1944, per sbandare i nostri partigiani: il volantinaggio aereo. Privatizzare, anche nel caso della realta', non significa fornire un buon servizio, all¹avanguardia e competitivo, ma evitare che ne vengano forniti altri.

Ma e' davvero possibile? Davvero crediamo che un buon grafico e un signor volantinaggio possano intaccare lo spirito nazionale di un popolo temprato da decenni di esclusione (su tutti i fronti, compreso quello della pieta' internazionale)? Che la promozione della guerra scalfisca gli orientamenti prodotti dalla miriade di Saddam che tappezzano quelle strade e quelle piazze? Che l¹operazione di marcketing degli alleati faccia fiorire bande di patrioti e comitati di liberazione nazionale? Che gli iracheni possano rimanere ammaliati da un nuovo e cosi' compromesso erogatore di realtà, insomma? Io francamente sono molto scettico. E penso inoltre che farsi questo genere di illusioni significhi aver drammaticamente perso il senso della misura, sovrastimarsi, non essere piu' capaci di ammettere che ci sono identita' culturali e situazioni politiche più resistenti della nostra al nostro modo di smerciare modelli di vita. C¹è parecchio eurocentrismo ­(come lo si chiamava una volta)­ in chi crede di convincere gli altri con un volantinaggio: un¹inconscia teologia del tutto-mercato, che giustifica e redime, che si vende in ogni contesto e che, anzi, lo riconfigura.

Questa prospettiva può convincere i fattorini della democrazia d¹asporto, ma difficilmente modifichera' gli orientamenti di chi riceve dagli stessi aerei il lutto, la morte ­ e la buona novella. Per la buona novella non si uccide: al limite, ma proprio al limite, si muore. Del resto lo sanno anche al Pentagono, nonostante lo ignorino parecchie migliaia di elettori che vivono dell¹area di egemonia del Dipartimento di Rumsfelds e che commettono l'errore imperdonabile di confondere la democrazia con le definizioni commerciali che escono dai nostri centri di comando. Il 15 febbraio, se non altro, sta li' a testimoniare che il numero di questi elettori e' in una fase di erosione.
[...]


Madame, ma quando torni?
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Un altro ragazzo si è tolto la vita all’accademia militare di Modena. Si chiama Ermir Haxhiaj, era albanese, aveva 19 anni. È il secondo suicidio in due mesi, il quarto in sei anni. I graduati insistono che si tratta di pura fatalità. Il padre del ragazzo invece accusa gli insegnanti di discriminazione.
Sull’accademia di Modena ho già scritto un pezzo , un mese fa, e non saprei cosa aggiungere.


Coccodrilli di guerra
Invece vorrei far presente una cosa che in questi giorni mi sta spaventando: mi sono reso conto che questo sito è un interminabile officio funebre, una galleria di coccodrilli.
Sono sceso in fondo alla pagina, e ho iniziato a contare i morti del mese, da Alberto Sordi fino al povero Ermir. Sono troppi.
D’altro canto, quando muore un attore importante, un cantante celebre, una ragazza schiacciata da un bulldozer, sembra impossibile non parlarne. I morti reclamano spazio, proprio loro che ormai non possono più essere aiutati: muovono i ricordi, scuotono le coscienze, fanno arrabbiare e commuovono. I morti – mi sto rendendo conto – sono un argomento molto comodo. Se vuoi fare indignare un lettore, o fargli spendere una lacrima, non c’è nulla di meglio di una prece in prima pagina.

E c’è di più – c’è di peggio: nelle nostre quotidiane battaglie di idee, i morti sono armi. Armi improprie, non convenzionali, micidiali. Rachel Corrie è morta, non esiste più. Perché ho messo la sua foto sul mio sito? Per commuovermi, per sentirmi buono. E perché il sorriso di Rachel Corrie è un colpo basso a chi non è d’accordo con me, a chi difende i carri armati israeliani.
Forse non avrei dovuto mettere quella foto. Forse non è giusto sventolare i morti come bandiere, gettarli addosso al nemico come armi.
C’è qualcosa di molto sbagliato in me, se la prima reazione al lutto del mattino è “Vedete che avevo ragione”. All’accademia si uccide un altro cadetto: “Vedete che avevo ragione? Lì dentro c’è del marcio”. Accoltellano un giovane disobbediente: “Vedete che avevo ragione? I neofascisti sono pericolosi”.
Potrò avere tutte le ragioni del mondo, ma ho perso la mia battaglia se ho trasformato i morti in argomenti, se non riconosco più in loro degli esseri umani, come me, che ieri respiravano e stamattina non esistono più.

Ho pensato a tutto questo dopo aver visto, su icapperi, un banner spaventoso, dedicato ai pacifisti, che mostra foto di vittime del regime iracheno, in gran parte bambini. “In Iraq in migliaia non possono camminare: Saddam ha dato loro “la pace”… Voi marciate per la vostra pace, voi marciate per la pace di Saddam. Ecco il prezzo della vostra pace. Io non posso permetterlo. Io non voglio pagare. È tutto vostro”.

Ora, qui c’è qualcosa di più del pessimo gusto. Innanzitutto c’è l’idea che i milioni di pacifisti del 15 febbraio siano poveri ingenui, che non abbiano mai sentito parlare dei crimini di Saddam Hussein: altrimenti non potrebbero non invocare l’invasione immediata dell’Iraq.
L’autore del banner non ha nessuna intenzione di ‘educare’ i pacifisti: essendo loro ingenui e ignoranti, l’unica cosa da fare è stordirli con una caterva impressionante di foto di bambini morti e feriti, possibilmente con il viso in primo piano e gli occhi sbarrati. Non è citata nessuna fonte per le immagini (sono curdi? Sciiti? A che anno risalgono le foto?).
Quei bambini morti non hanno una storia da raccontare. Sono soltanto un’arma di persuasione, una bandiera di civiltà (civiltà?).

Naturalmente si potrebbe obiettare in milioni di modi: che i pacifisti non sono filo-Hussein, perché Hussein non è pacifista; che i crimini del regime iracheno sono noti da sempre, e che è molto sospetta quest’improvvisa fregola di vendicare gli eccidi al gas nervino commessi più di dieci anni fa. Ma tutto questo non ha la forza del volto di un bambino che non esiste più.
E allora cosa facciamo? Alla fine qualcuno si metterà a cercare foto di bambini uccisi dai missili americani o israeliani, in Iraq, in Afganistan o in Palestina: e ci farà anche lui il suo bello, commovente, scioccante banner animato. E la battaglia per le idee continuerà così, a colpi di foto di bambini morti.

Andrà davvero così? Dipende da noi. Siamo così affezionati alle nostre idee, da rinunciare alla nostra umanità per difenderle?
Domani inizia la guerra, e i morti – come succede in questi casi – smetteranno di avere un volto: diventeranno numeri. Io prometto che ci andrò piano, coi coccodrilli, e non innalzerò più nessuna foto di morto come bandiera, e non userò nessun corpo di morto come arma. Voi fate pure quello che vi pare, siamo su internet. Buona fortuna.
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So thanks for allowing me to not feel like a complete polyanna when I tentatively tell people here that many people in the United States do not support the policies of our government, and that we are learning from global examples how to resist... (Rachel Corrie)

Perché in questa foto ha un sorriso gentile, simile a quello che abbiamo visto in altre ragazze che abbiamo salutato, e a cui abbiamo consigliato prudenza, che non sempre si può sfidare i carri armati a mani nude e spuntarla; perché in definitiva il suo volto assomiglia al nostro, è un volto pulito, senza rabbia e senza povertà, ci pesa troppo la morte di Rachel Corrie, ricoperta di sabbia e schiacciata da un bulldozer.
Ci pesa più della morte degli altri due palestinesi di oggi: ma quella è routine, e poi quella gente sembra predestinata alla miseria e alla violenza.
Rachel Corrie no. Veniva da Olimpia, Washington, USA, e qualcuno ben informato avrà già concluso che poteva benissimo starsene a casa sua, invece di ostacolare i democratici bulldozer d’Israele.

Da una lettera scopriamo che era bionda, ma nei campi preferiva teneva i capelli coperti per non urtare nessuno; che era vegetariana, ma che le era stata promessa una pastasciutta, uno di questi giorni. E che di solito parlava lentamente, con ricercata tranquillità. In questa foto però la troviamo sorpresa in un accesso d’ira, mentre brucia una rudimentale bandiera israeliana: un gesto che a un palestinese costerebbe probabilmente il carcere, ma che un cittadino occidentale pensa ancora di poter fare, nei Territori. Un gesto che qualcuno disapproverà, che qualcuno giudicherà antisemita, ma in tutta franchezza, signori: per voi Rachel Corrie era una pericolosa agitatrice? Merita di essere morta così?

Voi liberi pensatori, che difendete Israele perché è una democrazia e non un califfato, probabilmente siete dispiaciuti quanto me di questa ragazza forse un po’ troppo idealista, e pensate che ci dev’essere stato un errore, un incidente, una svista del conducente, e che un’inchiesta chiarirà le colpe e le responsabilità.
Posso rispondervi con un nome? Raffaele Ciriello.
Vi ricordate chi era Raffaele Ciriello? Un reporter italiano senza contratto fisso, che mentre fotografava l’avanzata dell’esercito a Ramallah fu colpito in petto da una democratica pallottola, partita da un democratico carro armato. È successo appena un anno fa, il tredici marzo.
Nei giorni successivi si sollevò un polverone, poi in Italia fu ucciso Marco Biagi e i giornali si misero a parlare d’altro. Nel frattempo i responsabili dell’esercito israeliano avevano dichiarato che la responsabilità era del reporter, che si trovava là dove l’esercito aveva consigliato di non restare. Perché c’è pur sempre una guerra, in Palestina, e in guerra, evidentemente, l’esercito democratico d’Israele si considera autorizzato a far fuoco sui giornalisti stranieri, se si trovano dove non dovrebbero trovarsi.

Ed eccoci qui, alla vigilia di una guerra. Una guerra che, come tutti sanno, si combatte per portare più democrazia nel Medio Oriente, dove ce n’è poca. E io, che sono italiano, occidentale, etnicamente affine a Rachel Corrie, anche se molto meno testardo e coraggioso, mi permetto di dire che a me non interessa affatto estendere la democrazia nel Medio Oriente; che anzi, se dipendesse da me la ridurrei. Vorrei che l’unica democrazia del Medio Oriente, che occupa da più di quarant’anni territori non suoi, opprimendone gli abitanti, fosse commissariata; che le fosse impedito di nuocere ancora a sé stessa e agli altri. Perché i crimini non sono meno odiosi quando sono commessi da un regime democratico, anzi.

La democrazia non è Baywatch, signori, la democrazia non è quel simpatico teatrino, riedizione televisiva dei panem e circenses, che piace tanto qui da noi: la democrazia è una cosa seria, nasce nel sangue e nel sacrificio, cresce lentamente e a volte degenera all’improvviso. La democrazia è una condivisione del potere e delle responsabilità. La responsabilità della morte di Rachel Corrie ricade sul governo che ha autorizzato la demolizione di quel villaggio, e sul popolo che l’ha votato.

Quanto ai crimini dei terroristi palestinesi, essi sono odiosi, e non possono essere giustificati. Ma non sono stati autorizzati dall’assemblea di un popolo. Sono opera di gruppi fondamentalisti che prosperano nel vuoto di potere e nella miseria dei Territori. Invece di favorire la nascita di una leadership palestinese, Israele ha fatto di tutto per ostacolarla, imprigionando ed eliminando i leader emergenti, lasciando il vecchio e screditato Arafat praticamente solo.

Oggi sentiamo che il liberatore del Medio Oriente, George W. Bush, promette la nascita di un nuovo Stato Palestinese. A tale scopo, ha chiesto ad Ariel Sharon che non siano più costruiti insediamenti nei Territori. Gli israeliani hanno avuto a disposizione un paio di anni per costruire nuovi insediamenti e fare tabula rasa dei villaggi palestinesi scomodi: ma ora basta, perdiana. Queste ruspe che ancora demoliscono case (e occasionalmente schiacciano qualche uomo o donna o attivista) sono le ultime. Poi si traccerà un nuovo confine, e i palestinesi dovranno accontentarsi di quello che gli israeliani non hanno già preso: il deserto e un paio di bidonvilles. L’acqua e la benzina, dovranno comprarla dagli israeliani.
Naturalmente diranno di no, perché non basta mettere un cartello davanti a un campo profughi per trasformarlo in uno Stato Palestinese. E ancora una volta, i signori bene informati di tutto il mondo scuoteranno la testa: ma come sono testardi questi palestinesi, ma cos’è che vogliono ancora? Quante guerre devono perdere per rassegnarsi a scomparire?

E ci saranno ancora ragazze ingenue o testarde come Rachel Corrie, o giornalisti inegnui e imprudenti come Raffaele Ciriello? Io ho paura di sì, che ci saranno. Anche se preferirei di no. Se questo è il prezzo della democrazia, io propongo di farne a meno, per ora.
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Ingenuità II
(perseverare diabolicum)

Saddam Hussein non disarmerà mai. Non è una previsione campata in aria, è un'analisi dei suoi comportamenti e della sua politica.

E noi, di chi ci dobbiamo fidare? Degli ispettori ONU o delle analisi di Christian Rocca sul Foglio? È una scelta dura, perché le analisi di Christian Rocca migliorano di giorno in giorno (questa settimana, per esempio, non confonde più i turchi con gli arabi).
Ma è ancora intimamente persuaso che l’uranio impoverito sia la via più breve alla democrazia nel Medio Oriente. Naturalmente “si tratta di un processo lungo, faticoso, pieno di insidie e molto, molto costoso”, e “Il rischio è che gli Stati Uniti, quanto più se isolati, decidano di abbandonare il progetto alle prime difficoltà”. “Se l'Europa e i paladini della pace si occupassero di questo, di spronarli e aiutarli a non lasciare le cose a metà, contribuirebbero molto più efficacemente a un futuro pacifico del mondo”.

Insomma, se alla fine dei bombardamenti non spunterà dai crateri della Mesopotamia un ceto medio in grado di produrre una classe dirigente democratica, la colpa sarà dell’Europa e dei Paladini della Pace. Intesi?
E ora silenzio, disfattisti, che comincia baywatch.

(Ma io mi chiedo: un dittatore, anche avendone voglia, come fa a disarmare, con tutto questo baccano di piani di invasione e di spartizione delle pelli che si fa sui giornali di tutto il mondo?)
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Nel conflitto in corso tra palestinesi e israeliani, come in tutte le guerre attuali, muoiono pochi soldati (cioè gente che per scelta o per mestiere mette in conto anche di essere ammazzata) e tanti bambini, donne, civili (cioè gente che non aveva messo in conto di morire dilaniato da una bomba o colpito da un proiettile). Ecco, oggi la guerra la fanno gli armati, ma non fra di loro, bensì a discapito dei disarmati. Questa dovrebbe essere la spirale da rompere, prima ancora della spirale dell'odio. Giuste o ingiuste le guerre le facciano gli armati, assumendosi la responsabilità di uccidersi tra di loro, in nome di dio, della patria o di qualsiasi altra ragione.


Assassini oggettivi

Michele Marziani non ha tutti i torti: una guerra civile è molto più orrenda di una guerra tra professionisti. Ma Michele Marziani non ha tutte le ragioni: non è giusto lasciare la guerra ai soli militari, non è così facile separare i civili indifesi e gli assassini.
Il caso di Israele è l’esempio più eclatante. I soldati della Israeli Defence Force non sono “gente che per scelta o per mestiere mette in conto anche di essere ammazzata”. Sono i giovani e le giovani di Israele, molti dei quali in servizio di leva. Non necessariamente condividono le vedute del governo in carica, anche se – in quanto militari – il loro mestiere consiste nell’eseguire gli ordini.
E i civili? Cosa significa “essere civili” per un cittadino israeliano? Nella maggior parte dei casi, significa vivere nel terrore di un attentato.
Ma sono civili, per esempio, i 400 coloni insediati nel centro di Hebron, che un tempo era città palestinese? Certo, loro non si sporcano le mani di sangue (anche se girano armati). Sono perfino esentati dal servizio militare. E sono protetti da 2500 effettivi dell’esercito, come se la città si assediasse da sola.

Mettiamo ora che noi – vi chiedo un grosso sforzo di fantasia – mettiamo che noi fossimo giovani palestinesi, cresciuti in un campo profughi di Gaza o della Cisgiordania, e che avessimo l’insana idea di voler combattere per l’indipendenza del nostro Paese. Mettendo in conto di essere ammazzati, è chiaro.
Dovremmo arruolarci in un esercito, e qui cominciano i problemi, perché in Palestina l’esercito non c’è.
Potremmo farci assumere dalla polizia di Arafat, ma istintivamente non ci fidiamo di quel capobanda che è sulle foto di tutti i giornali e che in tanti anni non è riuscito a fare uscire dai campi profughi i nostri padri e le nostre madri.
Molto più probabilmente ci rivolgeremmo a qualche Mullah che ci conosce, che nel campo si fa rispettare, che non si macchia di compromessi col nemico, che in questi anni ha già aiutato la nostra famiglia.
Il Mullah prenderebbe nota del nostro nome e cognome, e poi, un bel giorno, si farebbe vivo con una pettorina di esplosivo e ci ordinerebbe di esplodere in un dato posto, a maggior gloria di Dio. Promettendoci – in più – una buona pensione per la nostra famiglia, che vive nella miseria. Noi cosa faremmo?
Non abbiamo lavoro, non abbiamo prospettive, non abbiamo educazione; abbiamo la rabbia di un’occupazione militare che è più vecchia di noi. Ci propongono di morire come eroi, raggiungere rapidamente il paradiso e allo stesso tempo garantire il mantenimento dei nostri cari che restano quaggiù. Potremmo davvero dire di no?

E il giorno che, aggirati i posti di blocco, ci ritrovassimo in una città israeliana pronti a esplodere, come faremmo a decidere chi uccidere e chi no? Dovremmo avere pietà di un ragazzo o di una ragazza soltanto perché in quel momento non indossa la casacca verde? Dovremmo avere pietà dei bambini, quando uno di quei bambini potrebbe crescere e diventare Sharon? E forse che Sharon ha avuto pietà dei nostri?

Ma noi (fortunatamente) non viviamo in un campo profughi di Gaza e della Cisgiordania. Noi (fortunatamente) non siamo cittadini di Haifa o Tel Aviv. Stiamo dall’altra parte del mare e, anche se facciamo il possibile per tenerci informati, guardiamo tutto da un curioso punto di vista, che chiamiamo Oggettività.
Crediamo che oggettivamente si possano tirare delle righe, in Palestina. Non solo tra i Due Popoli e i Due Stati, ma anche tra i civili e i militari, e tra i militari e i terroristi. Per noi il colono di Hebron, che tiene in ostaggio un’intera città, è un civile innocente, mentre il ragazzo di Tel Aviv vestito di verde al posto di blocco ha il dovere di morire per difenderlo.
Per noi il ragazzo di Gaza con la pettorina è un terrorista, mentre chi l’ha lasciato crescere in quell’inferno è un civile innocente.

Di più. Noi siamo convinti che tutto sommato ci possano essere anche guerre giuste, finché si combattono molto lontano da qui, e finché a combatterle sono assassini regolarmente iscritti a eserciti regolari. Eppure lo sappiamo che nei processi per omicidio si condanna anche il mandante.
E il mandante non siamo forse noi, quando abbiamo deciso che il nostro petrolio, la nostra sicurezza, il nostro stile di vita non erano in discussione?
Certo, noi non ci sporchiamo le mani. Stiamo dall’altra parte del mondo e valutiamo i pro e i contro con oggettività. Nel frattempo abbiamo abolito il servizio di leva. Così, d’ora in poi, gli assassini regolari saranno soltanto quelli che non si possono permettere qualche professione più appagante. Magari saranno gli emigrati arabi, curdi, albanesi. E noi li manderemo a combattere in Arabia, in Kurdistan, in Albania, con le mostrine dei nostri eserciti.

Insomma, noi non siamo così migliori di quei coloni di Hebron. E in fondo la guerra in Palestina non è che la prova generale della grande guerra delle Civiltà. Ma non c’è da aver paura: la combatteranno altri per noi. L’essenziale è tenere lontani i soldati dai civili, cioè da noi, che siamo persone responsabili e oggettive. Mentre loro – i soldati – se vanno in giro per il mondo a uccidersi, in fondo è il mestiere che si sono scelti, no?
Oggettivamente.

(Io con chi sto? Io sto con tutti i giovani dei campi profughi che non aderiscono ad Hamas, non aderiscono alla Jihad, non si mettono pettorine: sono tanti, anche se non vanno sui telegiornali. E sto con i giovani dell’esercito israeliano che hanno rifiutato di prestare servizio nei Territori Occupati. Per ora sono 525).
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Il cammino del diritto internazionale
è lungo e irto di ostacoli, che mi accingo a illustrare:

Nel 1453, dopo lunghi mesi di assedio da parte dei turchi, le sorti di Costantinopoli sembrarono volgere al meglio quando una delegazione del Sultano Maometto II fu ricevuta con tutti gli onori dallo staff diplomatico Bizantino. Per un attimo l’intesa cordiale fra i due contendenti parve possibile. Purtroppo le richieste della delegazione turca furono stoltamente rifiutate dalla controparte, che le riteneva assurde e lesive della dignità bizantina.
La redazione di Leonardo è giunta in possesso delle pergamene riservate che mostrano l’ultimo, drammatico faccia a faccia tra il capo delegazione turca (Omar Balacs) e l’ufficio di gabinetto bizantino, l’eunuco Tarekon Amos:

Tarekon: Ah, questa no! Le torri poi no, per Santa Tecla! Io credo che dovrebbe esserci un limite anche alla faccia tosta dei Mori!
Balacs: Trovo singolare e alquanto buffa l’abitudine dei Bizantini di chiamare Mori noi Ottomani, che condividiamo con voi la medesima rosea carnagione.
(FSssssssss! Booooom!)
Tarekon: E non cambiare sempre argomento, brutta faccia di Beduino!
Balacs: Come? Non ho sentito, con tutto questo rumore.
Tarekon: “Questo rumore” sono i vostri infernali cannoni, a cinque leghe da qui.
Balacs: Si tratta di esercitazioni, la cosa non mi riguarda. Io sono un diplomatico.
Tarekon: Tu? Un diplomatico? Un ladro di casbah, ecco quello che sei, Omar! Con che faccia vieni a chiederci di abbattere le nostre stesse fortificazioni?
Balacs: Non tutte le fortificazioni, solo le torri che superano la misura di centocinquanta piedi.
Tarekon: E perché centocinquanta, di grazia?
Balacs: Dai 150 in poi noi le riteniamo armi offensive.
(Boooom! Tatrac!)
Tarekon: Offensive? Cosa c’è di offensivo in una torre, per San Diodato?
Balacs: Non fare il finto tonto, eunuco, sai benissimo che il fuoco greco cola dalle vostre torri in quantità, ed è un’arma esecrata dalla comunità internazionale. Sapete quanti padri di famiglia avete spedito ad Allah il Misericordioso, con quella diavoleria?
Tarekon: Tutti quei padri potevano starsene anche dalle loro pidocchiose famiglie in Cappadocia, invece di stazionare sotto le nostre torri difensive. È colpa nostra se ci state assediando da mesi?
Balacs: Non starò qui a discutere del concetto di colpa con un cane infedele, rappresentante di una monarchia tirannica ormai sconfitta dalla Storia. Un giorno, forse, ci sarà un organismo sovranazionale che dirimerà le controversie tra gli Stati…
Tarekon: Eh, magari.
Balacs: …ma nel frattempo ci si arrangia come si può. Allora il problema è tutto qui: Noi troviamo che quelle torri sono troppo alte, e noi vi chiediamo di tirarle giù.
(Tatrac! Booom!)
Tarekon: Ah sì, eh?
Balacs: Come segno di buona volontà.
(Entra il giovane scriba di Tarekon, tutto tremante)
Scriba: Ehm… illustrissimo Tarekon, è permesso?
Tarekon: Che c’è, ancora?
Scriba: Un… un dispaccio dal contrafforte orientale. Pare che gli infedeli – con rispetto parlando – gli infedeli, dicevo, pare che abbiano aperto una breccia.
Tarekon: Una breccia!
Scriba: Nel contrafforte orientale, sì.
Balacs: Non guardate me, non c’entro. Io sono un diplomatico.
Tarekon: Un diplomatico? Vieni qui col tuo asciugamano in testa a chiederci di abbattere le torri e intanto i tuoi cannoni stanno prendendo di mira i nostri contrafforti?
Balacs: Sono operazioni di routine, vedrete che…
Tarekon: Routine? Le nostre spie riferiscono che il tuo Sultano sta già facendo le gare d’appalto per ricostruire la città dopo il saccheggio! La vostra imprudenza è pari solo alla vostra supponenza! Fuori di qui.
Balacs: Bene, se le cose stanno così, me ne vado alla buon ora. Lungamente ho pregato in cuor mio (Crac! Booooom!) che la Montagna andasse da Maometto. Ma se le cose stanno così, non resta a Maometto che muoversi. E tanto peggio per la montagna. A presto, Tarekon.
Tarekon: A presto, Balacs, saraceno infame. Spero di strozzarti coi tuoi stessi genitali.
Balacs: Vorrei poter dire lo stesso. Addio.

Erano tempi bui, si sa, e il diritto internazionale era ancora indietro, indietro.

Veniamo al secolo scorso: 1940. Dopo aver invaso la Polonia e dilagato in Francia, il Terzo Reich sta studiando la prossima mossa. Isolata dal resto del Continente, la Gran Bretagna sembra una preda alla portata di mano: ma la Royal Air Force si sta dimostrando un osso più duro del previsto.
Mentre i caccia si scontrano sui cieli della Manica, un’altra battaglia di logoramento viene condotta sul piano diplomatico. La redazione di Leonardo è giunta in possesso di un altro documento riservatissimo: la conversazione tra Sir Terry Adsow, intmo amico di Winston Churchill, e Herr Heinz Blichsen, sottosegretario personale del marchese Von Ribbentrop. L’abboccamento tra i due ebbe luogo in uno chalet svizzero.

Adsow: Herr Blichsen, con tutto il rispetto, io credo che lei sia totalmente uscito di senno.
Blichsen: Non faccio che eseguire gli ordini dei miei superiori.
Adsow: In tal caso le pongo le mie scuse, ma la prego altresì di far presente ai suoi superiori che io li ritengo totalmente fuori di senno.
Blichsen: Bando alle cerimonie, si tratta soltanto di esaudire alcune semplici richieste, suggerite dal buon senso.
Adsow: Un tedesco che parla di buon senso è come un italiano che parla di treni in orario. Ma lasciamo perdere. Dunque, secondo i vostri superiori noi dovremmo smantellare il nostro sistema di contraerea…
Blichsen: Vede, è così semplice. Sappiamo che voi avete sviluppato quest’arma offensiva, contraria a tutte le più elementari regole della cavalleria, il… voi come lo chiamate? Quella cosa con le onde ellettromagnetiche…
Adsow: Il radar.
Blichsen: Ecco, sì, quello.
Adsow: E secondo voi il radar sarebbe un’arma offensiva?
Blichsen: Beh, senz’altro offende il nostro concetto di eroismo militare. Dove va a finire tutta la poesia del duello aereo? Lo Sturm, il Drang, l’impeto futurista dell’aviatore, membro scalpitante e ribollente nella guaina d’acciaio della fusoliera? Tutto questo, per voi non è che un bip bip su un quadro comandi. E la chiamate civiltà, questa?
Adsow: Ma lo facciamo per difenderci. Voi vorreste bombandarci e invaderci.
Blichsen: Vile propaganda, menzogne sioniste. La Gran Bretagna non è il nostro nemico naturale. Il nostro vero obiettivo è il blocco pluto-giudaico-bolscevico. Londra non ha nulla da temere.
Adsow: E che mi dite del Leone Marino?
Blichsen: Del che?
Adsow: L’Operazione Leone Marino. È il nome – fantasioso, invero – con cui il vostro Führer avrebbe battezzato un dettagliato piano d’invasione della nostra isola. Almeno stando al rapporto dei nostri servizi. Rapporto consegnato un mese fa.
Blichsen: Oh, i Servizi, si sa, ne dicono tante…
Adsow: Ogni giorno qualche vostro velivolo militare attenta al nostro spazio aereo. I vostri scenziati stanno studiando la possibilità di bombardarci con razzi a reazione, e chissà quale altra diavoleria. Il mare del Nord e la Manica pullulano dei vostri sommergibili. Il vostro Führer ha già pianificato la spartizione dell’Europa. E voi ci chiedete di smantellare il radar.
Blichsen: In segno di buona volontà.
Adsow: Il mio lignaggio e la mia educazione m’impediscono di riversare su di lei e sui suoi emissari le contumelie che vi meritereste.
Blichsen: Non so nemmeno perché sto a perder tempo col rappresentante di una decadente monarchia plutocratica, sconfitta dalla Storia e dall’insorgenza dei popoli giovani, forti, vivi, rigogliosi, ariani…
Adsow: Vada via, se ne torni nella birreria da dove è stato vomitato.
Blichsen: Come preferisce, ma si ricordi le parole di Brenno: guai ai vinti.
Adsow: Prenderò nota, grazie. E addio.


Ma oggi le cose vanno diversamente: oggi, finalmente, c’è un organismo sovranazionale che dirime le controversie tra gli stati. E infatti…
Hans Blix: Qui Blix.
Tareq Aziz: Sono Aziz. Niente, chiamavo solo per comunicare che abbiamo rottamato altri sei missili Al Samoud 2
Blix: Molto bene.
Aziz: … E nel frattempo, gli americani hanno bombardato Bassora, uccidendo sei civili.
Blix: Sì, ne ho sentito parlare. Ma sai bene che la cosa non ci riguarda. È un’operazione di routine…
Aziz: Certo, certo. E poi ho letto del piano di Bush per il nuovo assetto democratico dell’Iraq dopo l’invasione.
Blix: Già. Beh, Bush è in democrazia, sai. Lui può dire tutto quello che vuole.
Aziz: Già.
Blix: Non farmi il broncio, Aziz, non provarci nemmeno. Non m’incanti. Sei il rappresentante di una feroce dittatura. Hai sterminato i curdi col gas nervino.
Aziz: Ma per l'appunto. Quando sterminavamo i curdi col gas nervino tutti ci rispettavano. Ma adesso che abbiamo quattro missili in croce, dobbiamo pure distruggerli con le nostre mani, mentre Bush grida ai quattro venti che ha intenzione d’invaderci.
Blix: Aziz…
Aziz: Ho la sensazione di trovarmi nella pagina più ridicola della Storia del mio Paese e dell’Umanità intera. Il mio nemico grida ai quattro venti che vuole invadermi. Il mio nemico vuole che io mi disarmi, così l’invasione gli riesce più comoda. E io mi disarmo. Che razza di politica è mai questa?
Blix: Che ti posso dire, Aziz. È il diritto internazionale. Una prima mondiale, quasi. Un esperimento.
Aziz: E noi saremmo le cavie, eh?

Penso che Saddam Hussein se avesse davvero avuto intenzione di disarmare, lo avrebbe fatto. Deve disarmare, perché è pericoloso. Quindi qualsiasi cosa gli sentiate dichiarare adesso, si tratta soltanto di un tentativo di prendere tempo e di ingannare il mondo, perché è abituato a fare esattamente questo...
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Ingenuità
Se si pianta il seme della democrazia in Iraq, l'intera regione ne uscirà rivoluzionata, sostiene la dottrina Bush. Ci sarà, dicono, un virtuoso effetto domino. Questa è la nuova politica estera americana…

Ma i pacifisti sono ingenui? Alcuni sì, senza dubbio. Però non significa che abbiano il monopolio dell’ingenuità.
Prendi un “idealista conservatore”, Christian Rocca. In un lungo articolo sul Foglio spiega, dati alla mano, che il petrolio iracheno farebbe soltanto fallire i petrolieri texani. Il vero motivo per cui vale la pena bombardare l’Iraq è la democrazia…

In Iran la guerra rivoluzionaria è già in atto. La società civile (che in Iran c'è) è in rivolta, le manifestazioni contro il regime non si contano più, la partecipazione è incredibile, gli operai scioperano, i ragazzi scendono in piazza per il diritto di potersi tenere per mano. Più di metà della popolazione ha un'età inferiore ai 25 anni. Non ne possono più delle imposizioni dei mullah e della polizia religiosa, vogliono uscire per strada, divertirsi come i coetanei occidentali. Il programma tv più popolare è Baywatch, trasmesso via satellite dalla California.
Il regime crollerà. Questo si pensa a Washington. Specie se cadrà Saddam. Il destino di Iran e Iraq è comune. Non è immaginabile che il popolo iraniano tolleri ancora le imposizioni degli ayatollah, se la libertà arrivasse a Baghdad. L'effetto domino riguarderebbe anche la Siria, l'Arabia Saudita e di conseguenza aiuterà una soluzione pacifica della questione palestinese. E così, a cascata, la caduta di Teheran toglierà fiato agli Hezbollah in Libano. Anche la Siria, dipendente dal petrolio iracheno, sarebbe costretta a cambiare, a liberare il Libano, a lasciare in pace Israele, a chiudere i ponti con il terrorismo. Sembra Risiko, ma è la nuova politica americana.


Stasera è troppo tardi per definire il mio ingenuo concetto di “democrazia” o “libertà” (Sospetto che abbia comunque più a che fare con il concetto di responsabilità individuale e collettiva che con Baywatch). M’interessava però annotare quello di Rocca: per lui la libertà, la democrazia, consistono nel poter manifestare la propria simpatia per l’alleato americano e tenersi mano nella mano. Per ottenere questa svolta democratica in un Paese è sufficiente bombardare il Paese confinante.

Sarà probabilmente la mia ingenuità, ma non capisco in che modo il regime iraniano dovrebbe cadere, quando si troverà accerchiato tra tre protettorati americani (Afganistan, Iraq e Kuwait). Storicamente, in queste situazioni i regimi diventano ancor più autoritari e soffocano ogni tipo di dissenso interno. Ma probabilmente baywatch è più forte di ogni repressione.

Sarà ancora la mia ingenuità, ma io non capisco in che modo l’Iraq, una volta bombardato, si trasformerà di colpo in una libera democrazia, con cittadini sorridenti pronti a entrare nelle urne per votare un governo filo-americano. È andata così in Afganistan? (qualcuno ha capito com'è andata?) E se invece i fondamentalisti religiosi vincessero le elezioni, come in Algeria? A quel punto un Iraq democratico avrebbe diritto a dotarsi di armi di distruzioni di massa, come l’altra gloriosa democrazia del medio oriente, Israele?

E a proposito: nella regione c’è un popolo che cerca disperatamente di autogovernarsi attraverso forme di rappresentanza democratiche: sono i palestinesi. Certo, il fatto di vivere in un territorio occupato militarmente e vessato economicamente li rende fin troppo sensibili ai richiami del terrorismo: ma si tratta più di disperazione che di fanatismo religioso.

Forse sono troppo ingenuo a suggerire che ancor più di Saddam Hussein, ancor più di Osama Bin Laden, è la questione Palestinese il maggior motivo di frustrazione degli arabi nei confronti degli occidentali? E allora perché invece di seminare democrazia tramite bombardamenti in un terreno refrattario come l’Iraq, gli USA non si degnano di curare quell’esile pianticella che è l’Autorità Palestinese? Basterebbe così poco: ordinare il ritiro immediato dai Territori Occupati, e l’abbattimento della Grande Muraglia di Sharon. Perché non lo fanno? Non lo so. Non capisco.
È perché sono ingenuo.
Un povero, ingenuo pacifista.
Ho tanto da imparare.
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Sullo sciopero non ho molto da dire. C’era molta gente ed è piovuto.

Il carro armato dei vincitori

Stavo pensando invece a quello che ho sentito al telegiornale, sapete, quelle cose che ti bloccherebbero lo stomaco, se non fosse assuefatto sin dalla più tenerà età a digerire al suono dei bombardamenti e degli spot dei pannolini. Si parlava di un bambino estratto dalle macerie della sua casa dopo qualche giorno: accanto a lui i cadaveri dei genitori. Un terremoto?
No, Tsahal.
“L’esercito più democratico del mondo”, ho letto da qualche parte. Del resto Israele è “l’unica democrazia del Medio Oriente”, no? (A proposito, un premio a chi mi scova la Costituzione democratica dello Stato d’Israele).
Qualcuno dovrebbe spiegare agli israeliani che la democrazia consiste in un’assunzione di responsabilità. E in caso di strage o genocidio, la democrazia è un’aggravante.

Per esempio: quando parliamo delle leggi razziali nel ‘38, noi italiani ci aggrappiamo disperatamente al fatto che il fascismo era una dittatura, priva di un autentico consenso popolare (e c’è anche chi sostiene il contrario). Allo stesso tempo, tra qualche anno forse anche gli israeliani preferiranno pensare a Sharon come a un feroce dittatore. Beh, non lo era. Era il leader democraticamente eletto dell’unica democrazia del Medio Oriente. Aveva l’appoggio della maggioranza degli israeliani e di una parte rilevante dell’opinione pubblica occidentale.

"Perché i pacifisti non fanno gli scudi umani nei bar di Tel Aviv", si chiedono? A parte che i pacifisti ci andrebbero anche, nei bar, ma ultimamente non superano le celle di detenzione dell'aeroporto (dove vengono pestati nella maniera più democratica del mondo), il motivo è semplice, ed è il seguente: contro un kamikaze non c'è scudo umano che tenga. Signori equidistanti, un minimo di buon senso. Un ragazzetto di Hamas che ha deciso di farsi la pelle per attirare l'attenzione sulla questione palestinese si farebbe qualche scrupolo a coinvolgere nel suo massacro un turista-pacifista europeo? Perché dovrebbe? Anzi. Più che scudo umano, sarebbe un incentivo.

I pacifisti non sostengono il terrorismo palestinese. I pacifisti, col terrorismo palestinese, non cercano neanche di ragionare. Motivato o no dalla disperazione, il fanatismo non è un interlocutore. Israele sì. Quando andiamo davanti ai carri armati di Tsahal, noi stiamo scommettendo proprio sulla democrazia di Tsahal e di Israele. Quando gli agenti aeroportuali ci pestano e ci respingono, stanno dimostrando che la nostra fiducia è mal riposta.

E L’Israel Day. Ora premesso che in Italia c’è libertà di manifestazione e libertà di pensiero io mi chiedo: ma con di tutte le settimane che Dio manda sulla terra, per dimostrare la solidarietà a Israele, Ferrara e soci, dovevano proprio scegliere la settimana in cui si compiva la pagina forse più nera di Tsahal, l’eccidio di Jenin? Questi signori, oltre a scrivere i giornali, potrebbero anche leggerli ogni tanto: la strage era largamente annunciata. Passeranno alla storia per quelli che, nei giorni di Jenin, manifestavano perché “era minacciata l’esistenza stessa d’Israele”!

Ma cos'è Israele? Quella specie di oasi di democrazia nel Medio Oriente di cui parlano Ferrara e Lerner, quello Stato senza il quale ci sentiremmo tutti più antisemiti? Come non vedere che la creazione di Israele rispondeva proprio all'esigenza di tanti antisemiti europei di non trovarsi più gli ebrei tra i piedi? Come non vedere che Israele è uno dei pochissimi (forse l'unico) Stato fondato su base etnica (qualunque ebreo da ogni parte del mondo può ottenere la cittadinanza e ricevere incentivi per metter su casa nei Territori Occupati): un anacronismo spaventoso? Come non vedere che la guerra di Palestina è la prova generale del Grande Conflitto delle Civiltà, che i nostri figli d'origine europea e d'origine araba combatteranno nelle nostre città? Com'è possibile non vedere tutto questo? Soltanto per mettersi, una volta in più, sul carro (armato) dei vincitori?
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L'equazione Kissinger

Come si contano i morti? Non è una domanda da poco. Di solito una vittima pesa più del suo assassino, e un bambino vale sempre più di un adulto. Le convenzioni internazionali (per quel che valgono) prevedono poi che un civile valga più di un militare. Tutto questo ha un valore molto relativo nella Terra Santa, la terra dei paradossi. È più grave l'assassinio di un civile o un militare? Merita più pietà una ragazzina di leva che muore in un agguato, o un 'civile' colono di Hebron o di Gaza che fa tirassegno sulle case dei dirimpettai palestinesi? In ogni caso i palestinesi non hanno il diritto di avere un esercito, quindi o sono tutti civili o tutti terroristi.
Come si contano i morti? Evocata, la Fallaci sostiene che qualcuno "fa la tara" alle vittime degli attentati. È un'accusa grave, ma a chi è rivolta? Può citare un episodio? Ha in mente qualcuno?

La tara sui morti. Nella sua brutalità, quest'espressione mi ha colpito. Ho pensato alla fortuna di essere italiano: da noi la questura fa la tara solo ai manifestanti. E poi ho pensato a Kissinger, e a questa frase di un'intervista di 15 giorni fa, sulla Repubblica (copyright Cnn). L'ex segretario di Stato americano biasimava l'ossessione di Sharon per Arafat:

Credo che gli israeliani così facendo stiano distogliendo l'attenzione dagli attacchi suicidi, che hanno ucciso l'equivalente di 2500 americani in tre giorni, fatte le debite proporzioni.

Eh?
Sulla Questione Palestinese c'è molta letteratura. Decine di personaggi – esperti o no, coinvolti o no, di parte o meno – che ogni giorno dispensano la loro opinione. Nel frastuono generale capita di cogliere ogni tanto una frase al volo, che non si dimentica, tanto è enorme. Cosa vuol dire che in tre giorni i terroristi palestinesi hanno ucciso "l'equivalente di 2500 americani"? Quali sarebbero "le debite proporzioni"? Kissinger non le spiega. Le dà per scontate.

Ora io, senza voler passare per nessun motivo al mondo come sostenitore di Hamas, mi sento di negare con fermezza che in Israele o nei Territori Occupati ci siano mai state 2500 vittime di attentati in tre giorni. Non sono nemmeno sicuro che i palestinesi abbiano ucciso 2500 israeliani dall'inizio dell'Intifada, per cui "la debita proporzione" di Kissinger la trovo tutt'altro che scontata. Per l'americano Kissinger, insomma, un morto israeliano vale molti morti americani. Ma quanti, esattamente? E perché? Qual è la "debita proporzione"?
Ci ho pensato un po' su, e ho costruito la seguente teoria: Kissinger, da bravo americano, ragiona in termini di percentuali. E cioè: per lui tutti i popoli sono uguali (e questo gli fa onore), e valgono, diciamo, cento. Ora, fingiamo che esista un piccolo popolo di sole cento persone. Mettiamo che io ne uccida uno, perché mi sta antipatico. Vengo catturato in flagrante e processato per omicidio. Fin qui tutto bene. Ma interviene il premio Nobel per la pace Henry Kissinger e dice: un momento. Quest'uomo non ha ucciso un altro uomo. Ha ucciso l'uno per cento della popolazione di questo Stato. È come se avesse ucciso l'uno per cento della popolazione degli Stati Uniti. Vale a dire (gli americani sono 250 milioni) due milioni e mezzo di americani. Di conseguenza chiedo che venga processato per genocidio, come minimo.

Credo che in quei giorni si potessero contare una cinquantina di vittime degli attentati. Una cifra spaventosa. Che diviene ancor più spaventosa a contarla con l'unità di misura kissingeriana, il "cittadino americano". Ho fatto dei calcoli. Per ottenere una cifra di "2500 americani" Kissinger deve aver moltiplicato le vittime degli attentati (50) per la popolazione degli USA (250 milioni) e diviso il tutto per la popolazione d'Israele (5 milioni). Il risultato è impeccabile, da un punto di vista matematico, ma è delirante. Devo aver delirato anch'io, mentre lo ricostruivo. Armeggiavo con la penna su un foglio e mi dicevo, dio mio, ma sto davvero moltiplicando morti e vivi in questo modo? Milioni di morti e migliaia di vivi? Perché Sono pazzo? No, sto cercando di capire il modo in cui Kissinger conta i morti. Un perfezionamento dell'"occhio per occhio" biblico (si, Miss Fallaci, sta scritto nella Bibbia, non nel Corano): un occhio israeliano secondo lui vale 50 occhi americani. Ma se n'è reso conto qualcuno? L'intervistatore della CNN? Il traduttore di Repubblica? Un lettore? Ci ha fatto caso qualcuno? Nessun americano si è sentito di protestare? Questo qui si spaccia per esperto di geopolitica e fa calcoli del genere, magari con un foglio e una matita, come me. Li faceva anche quando lavorava per la Casa Bianca? E adesso per chi lavora?

A questo punto, perché dover sempre ragionare in termini di americani? Prendiamo i cinesi. Sono più o meno un miliardo. Mi aspetto di sentir dire qualche esperto di geopolitica (al di sopra delle parti, beninteso), che i terroristi hanno ucciso l'equivalente di diecimila cinesi, "facendo le debite proporzioni". Oppure prendiamo il principato di Monaco. Trentamila abitanti. Sconsiglio di torcere un capello a chiunque di loro. Equivarrebbe a torcere un capello a ottomila cittadini USA, in base all'equazione Kissinger (un altro motivo per tenersi caro Pavarotti).

E i palestinesi? Come la mettiamo coi morti palestinesi?
La mettiamo male, perché non si sa quanti siano. Per esempio, a Jenin gli israeliani sostengono di averne seppellito solo "qualche decina", ed erano "tutti armati". Per i palestinesi sono molti di più: forse cinquecento. Ma facciamo la tara anche alle vittime di Jenin, che essendo armate sono senz'altro terroristi (mentre i coloni che girano armati per il centro di Hebron sono pacifici cittadini). Mettiamo che "qualche decina" siano 50: quanto valgono, in base all'equazione Kissinger, cinquanta morti palestinesi?
Se si calcola tre milioni di palestinesi nei Territori (approssimazione per eccesso, ma ragionevole, se ce n'è un milione e duecentomila solo nella striscia di Gaza), la debita proporzione dà 4166,6 periodico (controllate anche voi). Facciamo quattromila. L'equivalente di quattromila cittadini americani è morto e sepolto a Jenin. Quasi le Twin Towers. Nota: abbiamo i dati forniti dall'esercito israeliano, che non è tenuto a dire la verità (sarebbe piuttosto stupefacente che la dicesse). Ma anche così l'equazione Kissinger darebbe ragione ad Arafat. A meno che non sia applicabile ai morti palestinesi, ma solo agli israeliani. Quindi anche la matematica non sarebbe uguale per tutti? Questo Mr. Kissinger, sospettato di crimini contro l'umanità, non lo dice.

Insomma, hai voglia a fare la tara. I morti palestinesi sono più di quelli israeliani. E se i civili contano di più, anche i civili morti palestinesi sono più dei civili israeliani. Per una ragazzina israeliana morta in discoteca possono esserci due o tre ragazzini palestinesi che forse avrebbero preferito esserci anche loro, in discoteca, ma non ce ne sono nei Territori. Se decidiamo che ogni vita umana ha il medesimo valore (idea familiare in quella regione, da duemila anni almeno), piangeremo sia per gli israeliani che per i palestinesi, ma per questi ultimi dovremo piangere più tempo. Se diciamo che lo Stato d'Israele è minacciato, dobbiamo anche dire che è minacciata l'esistenza stessa del popolo palestinese. E trarre la conseguenza: da che parte stiamo? Perché è ipocrita, in questa colossale disparità di mezzi, dirsi imparziali: è solo un modo lambiccato e tipicamente italiano di infilarsi sul carro dei vincitori, quali che siano. (Israele vince? Ed ecco un'affollata schiera di opinionisti sentire l'improvviso bisogno di riconoscere a Israele il diritto all'esistenza. Purtroppo Israele questo diritto se lo è preso anni fa, senza chiedere opinioni alla crema del giornalismo italiano). Io non sono imparziale. Io sto coi perdenti. Le ragioni dei vincitori non m'interessano. Tanto i vincitori hanno i mezzi sufficienti a farsi sentire. I perdenti invece hanno bisogno di aiuto. Non dico che i loro morti valgono di più – non faccio equazioni, io, non sono un esperto di geopolitica e non lavorerò mai per la Casa Bianca. Dico solo che i loro morti sono di più. Vediamo chi smentisce questo.
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Eugène Delacroix: Giacobbe lotta con l'angeloIn difesa di Sodoma, II
Continua da ieri
E infatti:

Il secondo motivo è legato allo schieramento di destra, il quale minaccia che nel giorno dello smantellamento delle colonie anche i suoi sostenitori agiranno secondo la propria coscienza rifiutando di collaborare con gli ordini del governo in carica e cercando addirittura di ostacolarne i propositi. E' quindi assolutamente impossibile accettare ora il rifiuto degli ufficiali della sinistra perché ciò legittimerebbe anche l'eventuale rifiuto dei militanti della destra. Il giorno della separazione fra i due popoli, allorché sarà necessario sgomberare le colonie, il governo si troverà a sostenere un esame improbo, violento al punto da rasentare la guerra civile. I sostenitori della pace dovranno perciò presentarsi a tale esame con le mani pulite e dire alla destra e ai coloni: noi siamo stati fedeli alla democrazia anche quando questa agiva contro i nostri principi, ora tocca a voi accettare le decisioni della maggioranza.

Questo è un punto cruciale, non solo per Israele, ma anche per noi italiani. Cosa intendiamo quando usiamo la parola "democrazia"?. Per noi (in teoria), la democrazia è il regime in cui tutti i cittadini hanno pari diritti. Per Yehoshua si tratta più semplicemente del governo della maggioranza. Se la maggioranza decide di sgomberare le colonie, sgomberare le colonie è giusto: finché, però, la maggioranza sostiene Sharon, le colonie restano occupate, anzi, crescono, vanno difese con la forza, e chi si rifiuta di difenderle commette un diritto di Lesa Democrazia.
Yehoshua non sembra capire che esistono Leggi al di sopra delle maggioranze: secondo queste Leggi (che in questo caso sono risoluzioni dell'Onu) l'occupazione dei territori è illegale. Perciò rifiutarsi di invadere i Territori è giusto, mentre opporsi allo smantellamento delle colonie è sbagliato. Non importa se la maggioranza di Israele la pensa in un modo diverso: la maggioranza degli israeliani sbaglia, e quella manciata di obiettori ha ragione.
Anche in Italia, a volte, capita che un Presidente del Consiglio indagato cerchi di cambiare alcune leggi per evitare una sentenza sfavorevole, e i suoi avvocati dichiarino che dopotutto è un suo diritto: è stato eletto dalla maggioranza degli italiani… Quegli avvocati, come Yehoshua, hanno una visione distorta della democrazia e della legalità.
Anche in Germania (e mi dispiace, ma qui il paragone regge davvero) è capitato che negli anni Trenta un partito dichiaratamente xenofobo e antisemita ottenesse la maggioranza in parlamento: questo può giustificare i crimini contro l'umanità commessi dai nazisti, ordinati dai loro governanti ed eseguiti dai loro sottoposti? Naturalmente no.
Ma anche Sharon ha ordinato e sta ordinando ai suoi sottoposti di commettere crimini contro il popolo palestinese. Il fatto che dietro di sé abbia il consenso della maggioranza del popolo israeliano non è un'attenuante, anzi, è una vergogna per tutta Israele, così come avere dato il proprio consenso al regime nazista è un'onta per tutto il popolo tedesco. Lo sappiamo già: a guerra finita, centinaia di semplici esecutori si scuseranno dicendo che loro in fondo non erano d'accordo, non si rendevano conto, "eseguivano gli ordini": bene, il giusto, in questi casi, è colui che si rifiuta di "eseguire gli ordini". I refusnik, che per Yehoshua minacciano la "fragile" democrazia israeliana per noi sono gli unici veri difensori della civiltà d'Israele. Ma c'è un terzo argomento:

Il terzo motivo è legato al tipo di lotta in atto tra noi e i palestinesi. Quando gli ufficiali e i soldati sostengono di dover assumere un atteggiamento brutale e disumano contro la popolazione civile ai posti di blocco e nel corso dei pattugliamenti delle vie cittadine, hanno ragione solo in parte. Infatti tali comportamenti inclementi nei confronti di cittadini innocenti sono mirati a intercettare guerriglieri palestinesi che non vogliono soltanto liberarsi, giustamente, dal giogo dell'occupazione israeliana, ma anche scacciare gli israeliani da tutta la regione. La nostra quindi non è una lotta solo per mantenere gli insediamenti e l'occupazione ma anche per difendere il diritto stesso alla nostra esistenza.

Qui il ragionamento di Yehoshua tocca le vette dell'assurdità. Un guerrigliero palestinese vuole liberarsi dal giogo dell'occupazione: quindi è un patriota. Ma allo stesso tempo potrebbe anche voler scacciare gli israeliani dalla regione: quindi è un terrorista. Come sciogliere questo nodo inestricabile di motivazioni? Nella solita salomonica maniera: nel dubbio, sparate. Sparate a loro, alle loro case e alle loro famiglie, malgrado la Bibbia dica chiaramente che le colpe del padre non dovrebbero ricadere sui figli.
Questa logica contorta non può essere ritorta contro Yehoshua e il suo popolo? Sharon vuole difendere i suoi connazionali: quindi è un patriota. Ma vuole anche scacciare i palestinesi dalle loro terre: quindi è un violento conquistatore. Yehoshua stesso ammette che "Tutto si confonde e nella stessa azione offensiva possono coesistere elementi di conquista coloniale a fianco del diritto elementare di difesa dello Stato". E a questo punto, se tutto si confonde, cosa dovrebbe fare la comunità internazionale? Nel dubbio potrebbe anche bombardare, come ha fatto in Iraq (Saddam Hussein invase il Kuwait indipendente) e in Serbia (Milosevic voleva eliminare la comunità albanese in Kossovo). Naturalmente questo non accadrà: ed è meglio così. Ma la logica è più o meno la stessa. In maniera pacata e apparentemente ragionevole, Yehoshua ci ha spiegato che, siccome qualsiasi combattente palestinese potrebbe essere un terrorista, tutti i combattenti palestinesi devono essere trattati come terroristi. E chi abita nelle loro case è complice dei terroristi. Non male, per un intellettuale pacifista israeliano.

Torniamo ad Abramo. Ricordate? Dio gli aveva appena promesso di farlo padre di una grande nazione. Le grandi nazioni hanno bisogno di spazio vitale, e quegli svergognati sodomiti e gomorrei occupavano le fertili sponde del Giordano. Perché darsi pena per loro? Un altro avrebbe incitato Dio a ridurle in polvere. Abramo no. Perché? Non è chiaro. I patriarchi della Bibbia sono strani personaggi, astuti, violenti, passionali, ma anche capaci di slanci improvvisi e indecifrabili. Abramo, noto soprattutto per la sua cieca obbedienza agli ordini di Dio, qui mostra un temperamento tutt'altro che remissivo. Pur di salvare i sodomiti (suoi potenziali nemici) si arrischia in una estenuante trattativa col Dio a cui deve tutto, un Dio notoriamente geloso e irascibile. Perché lo fa? Per un sentimento di giustizia superiore a ogni cosa. Superiore alle ragioni dei popoli e persino a quelle di Dio. Non importa quel che fa la maggioranza dei sodomiti: persino Dio non ha il diritto di torcere un capello all'uomo giusto.
Qui Abramo meriterebbe il nomignolo appioppato a suo nipote, "Israele", che significa "colui che ha combattuto contro Dio e contro gli uomini, e ha vinto" (Gn 32,29). Vincere contro gli uomini non è un'impresa eccezionale, ma vincere contro Dio, ottenere la sua misericordia, è qualcosa di miracoloso, di rivoluzionario. Se ne rendono conto i figli di Abramo sparsi nel mondo, gli ebrei, i musulmani, i cristiani? Se ne rendono conto gli israeliani, che per stanare i terroristi sparano alle ambulanze della mezzaluna rossa? La maggior parte no, non se ne rende conto. Ma qualcuno c'è, qualcuno che nel fragore della guerra intercede per Sodoma, per il nemico. Non sono tanti, certo. Ma a Dio ne bastavano dieci. Anche noi, facciamoceli bastare. Condanniamo Israele, ma non odiamolo.
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In difesa di Sodoma

La Genesi (capitolo 18) racconta la fine di Sodoma e Gomorra, le città nella valle del Giordano che Dio volle distruggere a causa dei loro peccati, e di come prima di procedere alla distruzione Dio stesso – in via del tutto eccezionale -– fece tappa da Abramo, che offrì per l'occasione focacce di fior di farina. Allora Dio annunciò che Abramo sarebbe stato padre di una grande nazione "in cui saranno benedette tutte le nazioni della terra" (18,18), ma anche la fine delle due città vicine: "il grido contro di loro è molto grande, e il loro peccato è molto grave"(18,20).

Abramo, che è un brav'uomo (e poi a Sodoma ha parenti), fa quel che può per salvare le città. La sua arringa è ben congegnata. Il patriarca parte da un assurdo: mettiamo, dice, che a Sodoma ci siano cinquanta giusti. "E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano? Lungi da te il far morire il giusto con l'empio! Forse il giudice di tutta la terra non praticherà la giustizia?" Dio accusa il colpo, e si fa strappare una concessione non da poco. "Se a Sodoma troverò cinquanta giusti, per riguardo a loro perdonerò tutta la città" (18,24-26).

Stabilita così la legge del perdono, a Abramo non resta che proseguire in discesa: "Mettiamo", prosegue, che ce ne siano solo 45: vuoi distruggere una città intera per cinque giusti in più o in meno?" E Dio abbassa la soglia a 45. "E se fossero solo quaranta, trenta, venti?" Fino alla manfrina finale: "Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora una volta sola; forse là si di giusti se ne troveranno solo dieci". E il Signore: "Non la distruggerò per riguardo a quei dieci" (18,32). Dopodiché si dilegua, prima di concedere ulteriori ribassi. Sodoma, è noto, sarà distrutta ugualmente: ma da allora il popolo di Abramo sa che bastano dieci giusti a salvare una città. Anche noi, teniamocelo per detto.

Prima di accusare Israele (il moderno Israele) di genocidio o quant'altro, sarà opportuno verificare se non ci sia almeno una manciata di giusti, a Gerusalemme ovest o a Tel Aviv, che si siano opposti alla guerra. Non li troveremo tra i laburisti al governo, i cosiddetti 'laici' che non hanno mai veramente ostacolato l'occupazione dei territori. Piuttosto vorremmo cercarli tra gli intellettuali: forse che non ci sono intellettuali pacifisti in Israele? Anzi, abbondano. C'è Yehoshua, per esempio, che sulla Stampa è tradotto un giorno sì e l'altro no: Yehoshua che per esempio ieri bacchettava severamente l'intellettuale portoghese Saramago, reo di aver paragonato Ramallah ad Auschwitz e gli israeliani ai nazisti: in questo modo non si calmano gli animi, anzi, si incitano i terroristi a massacrarci, dice. Per poi chiedersi: perché gli europei continuano a insistere con questo assurdo paragone coi nazisti? Forse per esorcizzare il loro proprio passato, quello sì nazista, o almeno collaborazionista. È un'ipotesi molto interessante, e molto sottile. I rastrellamenti, i prigionieri marchiati con inchiostro indelebile, i campi profughi dove i libri sono vietati e sotterrati (Dheishe), la guerra lampo dei tank (in tedesco si dice Blitzkrieg) la propaganda nazionalista e razziale, la sopraffazione, sono altre possibili spiegazioni (molto meno sottili), che a Yehoshua per ora non vengono in mente.

Yehoshua non potrebbe essere chiamato in difesa di Sodoma? Yehoshua è tutto meno che un fanatico; ha firmato a suo tempo un appello di intellettuali israeliani per la pace; vorrebbe che i laburisti lasciassero il governo e appoggiassero il ritiro unilaterale dai territori occupati. Yehoshua è senz'altro in buona fede quando si proclama intellettuale pacifista; ma proprio questa buona fede è drammatica. Ecco un brillante scrittore che vive in Israele, e che ha modo di guardarsi attorno e ragionare. I suoi ragionamenti, che a Tel Aviv sanno di buon senso, a Betlemme suonano già deliranti: e altrettanto deliranti suonano in Italia, a me almeno. Ho ancora in mente l'articolo di un mese fa (segnalato da Frederic) in cui criticava il manifesto degli obiettori di coscienza. Quella manciata di militari che rifiutano di intervenire nei Territori: alcuni di loro (una decina) attualmente sono incarcerati. Che cosa può avere il pacifista Yehoshua contro di loro?

Vorrei ora spiegare ai lettori italiani le ragioni di questo mio atteggiamento. Il concetto di governo è estremamente nuovo nella storia ebraica. Durante tutto il periodo della diaspora gli ebrei hanno vissuto in un contesto esistenziale libero da ogni imposizione da parte dei loro connazionali. Gli israeliti potevano discutere fra loro, litigare, ma nessuna autorità o governo ebraico li poteva costringere a determinate azioni o comportamenti. Essi erano sudditi di un potere «gentile» ma affrancati da qualsiasi sovranità ebraica. E' possibile dunque affermare che la vita ebraica nella diaspora fosse sostanzialmente anarchica. Il prezzo pagato per tale anarchia, in termini di sterminio e di assimilazione, è noto a tutti. La creazione dello Stato di Israele ha cambiato radicalmente questa situazione. Gli ebrei si sono liberati dal potere straniero per creare una propria sovranità in un regime democratico. La democrazia israeliana non è perfetta, è vero, come molte al mondo, ma è pur sempre garantita da elezioni libere e dal rispetto della libertà di parola e di stampa. Qualunque lesione del tessuto di questa giovane e fragile democrazia (fragile non tanto per il pericolo dell'imposizione di un regime totalitario ma per il rischio di precipitare nell'anarchia), quale il rifiuto di adempiere all'obbligo militare, è quindi pericolosa e non va incoraggiata.

Per Yehoshua, insomma, gli israeliani sono ancora ragazzini che devono abituarsi al concetto di "sovranità", guai a sgarrare, l'obiezione di coscienza è un lusso di nazioni più mature, come l'Italia. Nessun lettore italiano, immagino, si è preso la briga di spiegargli che la Repubblica italiana e lo Stato d'Israele hanno più o meno la stessa età: del resto anche da noi esistono intellettuali pronti a spiegarci che passiamo col rosso perché ancora non ci fidiamo dell'Autorità costituita. Per Yehoshua Israele è dunque continuamente sul punto di cadere in una non meglio definita anarchia. È un'idea plausibile? Ci sono precedenti storici? Sì. In anarchia vivevano gli israeliti giunti alla Terra Promessa dopo la fuga dell'Egitto. È un lungo periodo oscuro, di guerre, faide e lotte tra tribù, narrato nella Bibbia e precisamente nel Libro dei Giudici: ogni tanto nel testo compare questo versetto a mo' di spiegazione: "a quel tempo Israele non aveva ancora un re". Il finale (21,25) è ancor più eloquente: "a quel tempo Israele non aveva ancora un re: ognuno faceva quel che gli pareva meglio". E infatti Israele era lacerato da guerre intestine, ed esposto agli attacchi di Filistei, Amorrei, ecc.. È chiaro che Yehoshua non ha più ragione per temere Filistei e compagnia. Teme però "lo sterminio", malgrado Israele sia un membro riconosciuto della comunità internazionale, e "l'assimilazione": assimilazione con chi? Forse con gli otto milioni di profughi palestinesi che chiedono di rientrare nella loro Patria, e che col loro maggiore tasso di natalità minacciano la 'purezza' dei cinque milioni di israeliani. Per questo, oggi come ai tempi di David e Salomone, "Israele deve avere un re". Questo re si chiama democrazia. Imperfetta, "è vero": ma guai a chi la mette in discussione. E infatti:

(la tirata contro Yehoshua continua domani perché è veramente troppo pesante)
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Forse non sapete che l'esercito israeliano manda in onda video porno sulla tv palestinese. Una volta occupata la tv palestinese a Ramallah, i militari israeliani si devono essere posti il problema di cosa proiettare. I Dieci Comandamenti? Ben Hur? Le scene di giovani spensierati sulla spiaggia di Tel Aviv con cui ci ha deliziato anche oggi il TG2? Pare invece che i militari di tutto il mondo reagiscano nello stesso modo agli stessi stimoli: porno, con tanto di pubblicità per le hotline. Quelli registrati in casa per pudore. Alle proteste di un'avvocatessa palestinese i portavoce dell'esercito hanno risposto che "i soldati non sapevano che tutta Ramallah stesse guardando". Beh, certo. Ieri era una bella giornata di primavera, come si vede nella foto qui accanto. L'ideale per fare due passi. Perché mai i palestinesi sarebbero dovuti restare in casa a guardare la tv?
La notizia è dell'Ha'aretz, "la più autorevole testata israeliana", tanto autorevole che certe notiziole di poco conto come questa nella versione inglese non le pubblica. Ci ha pensato Indymedia Israele.

Forse non sapete che la chiesa della Natività – quella in cui ormai 200 miliziani palestinesi si tengono stretti a quella manciata di giornalisti che sono la loro unica speranza di vita – è la chiesa più antica del mondo. Nel senso che è quella che sopravvive da più tempo, da Costantino il Grande, direi. Qualche sito romano e perfino bolognese può rivaleggiare in antichità, ma la Natività è l'unica chiesa consacrata a essere sopravvissuta all'invasione araba (anche il S. Sepolcro, in un certo senso, ma il Sepolcro non è propriamente una chiesa, è un guazzabuglio di altari e santuari). Sopravviverà agli israeliani? Non ce l'ha fatta la moschea eretta dall'altra parte della piazza, testimone di secoli di convivenza pacifica che sono pure trascorsi in questa terra. Gli israeliani non fanno passare i pompieri palestinesi, pompieri terroristi. Noi, che condividiamo la preoccupazione del nostro Presidente per i Luoghi Santi, siamo in apprensione. Lì dentro stanno al buio per paura dei puntatori israeliani. Tutto così moderno, e così orribilmente simile a certe cronache medievali in cui gli ultimi ribelli si asserragliano nella chiesa, e i sacerdoti fanno da intermediari.

Peraltro non è detto che i salesiani siano così super partes: per ora rifiutano ostinatamente di lasciare la chiesa sorta sulla grotte dove (forse) nacque Gesù e (più probabilmente) Girolamo tradusse il Vangelo. I salesiani… non so se faccio bene a dirlo, ma di loro ricordo soprattutto un frate pacioccone, che parlava bene italiano ma con un accento indecifrabile, e posava volentieri per le foto sul chiostro (il chiostro in cui ora i miliziani calcolano le ore che gli restano da vivere). Serafico, come si conviene, ci aveva accolto dicendo tuttavia: "Vedete che succede? Hitler non ha fatto abbastanza per questa gente". La frase ci aveva gelato. Un'orribile bestemmia antisemita, ma anche il tipico sfogo di un signore qualsiasi dopo tre ore di fila a un posto di blocco. Alcuni avevano protestato, io mi ero fatto da parte, e forse nella foto non sono venuto. Stavo dando un occhio al chiostro, cercando anche lì qualcosa da salvare, da sistemare in una memoria organizzata e coerente, magari una traccia di speranza, in uno dei più antichi tempi della speranza del mondo. Ma anche lì non ho trovato niente. Solo rabbia e disperazione, un frate pacioccone che invoca Hitler, e mezz'ora dopo, nelle strade che ora sono tombe all'aria aperta, un bimbo di tre anni difendersi con pugni ben assestati da un compagnuccio di cinque o sei. Mi domando dove siano ora – ma dove vuoi che siano, sono lì. Se pure avessero una cantina in cui nascondersi, c'è una cantina a prova dei mortai? E comunque dovranno uscire a cercare il cibo che non c'è. Del resto sono anni che si preparano, giocando con fucili di legno. E poi la loro vita non dev'essere qualcosa di così prezioso di cui preoccuparsi. I loro padri sono i martiri che brandiscono i fucili sui manifesti incollati a ogni muro.

Elisa? Magari qualcuno leggendo il grande Defarge si sarà messo in pensiero. Elisa è a Gerusalemme, che in questo momento è uno dei luoghi più sicuri della Palestina. Sono fiero di lei, di Sonia Morgantini, di tutti gli italiani e i francesi e gli altri a Dheishe, Ramallah, Betlemme, e di quei matti che tuttora partono e partiranno -- anche se alla fine in tv mandano in onda solo Bertinotti. Io sto qui, correggo compiti, do un occhio a internet, mi sento un poco un verme, ma non conta, e poi è nulla in confronto a come mi sentirò in futuro, a come ci sentiremo tutti, se la Pace non vince su quel Piave che è la Palestina, se da quella porta stretta (la porta dell'umiltà) la guerra dilaga. E la guerra dilaga.
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fuori mi prendono mira e io qui dentro a fare la soubrette"Insomma, sono in due: perché nei messaggi non parlano mai l'una dell'altra?"
"Forse perché non sono nello stesso gruppo".
"O forse perché si stanno sulle palle".
"Ehm, speriamo".
"Era una battuta per sdrammatizzare?"
"Era una battuta per sdrammatizzare. E al cellulare hai provato?"
"Staccato"
"Avrà finito le batterie".
"Magari le ha prestate ad Arafat".
"Era una battuta".
"Sì. Dico, t'immagini la scena? Yasser, scusa, che modello usi? What kind of phone? Ehi... ragazzi, un po' di silenzio. Non è che qualcuno ha un caricatore per un Panarola del 1995?"
"Non può essere vero tutto questo. Cioè, l'altra sera ci bevevamo una birra assieme e adesso è in guerra. In guerra."
"Io vorrei essere là".
"Io me la farei sotto".
"Anch'io, non c'entra".
Notizie dal mediacenter di Gerusalemme


dalla Palestina:
Subject: Colpevoli di essere palestinesi....!!!
Date: Mon, 1 Apr 2002 00:56:22 +0200

Cari amici e amiche,

noi tutti e tutte siamo stati condannati alla pena capitale da Israele. Siamo colpevoli di essere Paelstinesi. Siamo colpevoli di difendere le nostre case, i nostri bambini, le nostre scuole, le nostre vite e il nostro presidente. Siamo stati tutti e tutte condannati alla pena capitale da Sharon e dal suo governo. Senza processo, senza difesa, senza neppure un'ultima confessione o un ultimo desiderio.

Saremo giustiziati con un colpo alla testa. Non fa differenza il sesso o l'età. Vecchi o giovani, uomini o donne, siete tutti colpevoli. E se non morirete subito, i soldati israeliani si assicureranno che moriate dissanguati. A nessuna ambulanza è permesso aiutare chi è stato giustiziato.

A Ramallah, i soldati israeliani hanno già giustiziato trenta o più Palestinesi. Li hanno colpiti alla testa o al cuore, poco importa. E' difficile sbagliare: in quanto giustizieri, dovete stare solo a un paio di metri di distanza. Più ne giustiziate, più lunga sarà la vostra licenza. Dovete tenere a mente quanti ne avete giustiziati, se non volete perdere il premio finale. Potete anche scattare una foto alla vostra vittima, per essere sicuri di ricordare.

Molti soldati israeliani portano con sé le loro cineprese e riprendono le loro vittime palestinesi. I bei ricordi meritano di essere ripresi e conservati, non vi pare?

L'esercito israeliano ha bisogno di tutto l'aiuto possibile perché in Cisgiordania e nella strisica di Gaza restano ancora 3.499.070 palestinesi, che sono anch'essi colpevoli.


Marina Barham, anch'essa colpevole
INAD Theatre - Beit Jala


Dall'Italia
Oggetto: TELEFONARE A FARNESINA 06 36915551

Telefonate alla Farnesina 31-March-2002 17:18

Appello da Geruslemme
autore: - lingua: It
Appello dai pacifisti italiani da Gerusalemme: questo è il numero dell'unità di crisi della Farnesina, che dovrebbe seguire la vicenda dei cittadini italiani all'estero: visto il disinteresse per il pericolo che corrono gli ormai oltre venti italiani a Ramallah, chiusi in albergo e circondati dai carri armati, mentre tutto interno si spara e gli israeliani danno la caccia a ogni palestinese che abbia un incarico dell'Anp, prima di tutti Bargouti, nonché i trentacinque a Deheishe, nei pressi di Betlemme, dove sembra che un attacco di carri sia imminente, si invitano tutti a telefonare, chiedendo notizie di amici e parenti in Palestina. Il numero è: 06 36915551.
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ci sono pochi, pochissimi motivi per andare fieri di essere italiani. Ad esempio:

Beh, buona Pasqua.
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Un altro venerdì santo, in Palestina

Subject: COMUNICATO DA RAMALLAH
Date: Fri, 29 Mar 2002 14:18:49 +0100

Se volete essere aggiornati sulla situazione in Palestina e sulle sorti degli italiani che si trovano là (tra l'altro non stanno tutti a Gerusalemme e c'è anche un gruppo di 35 persone che si trova in un campo profughi), potete consultare il sito di Radio Onda Rossa (87,9 FM (http://www.ondarossa.info) o ascoltare le radio del circuito Radio Gap (www.radiogap.net). Dalle 18,30 alle 19 c'è uno spazio quotidiano dedicato e durante il giorno vengono passate altre notizie. Ciao Silvia

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RAMALLAH 29 marzo 2002

Vi giro, tradotto, l'appello che ho appena ricevuto dal Palestinian Monitor, organo di stampa del PNGO (coordinamento delle ONG palestinesi) con sede a Ramallah. Il messaggio arriva da un'indirizzo privato perché in questo momento nessuno può raggiungere gli uffici. E' urgente la nostra
mobilitazione. Come indicato da Sveva, l'appuntamento per Roma è a Piazza San Marco, ore 17,30. Silvia Macchi


ISRAELE DICHIARA GUERRA AI PALESTINESI
I PACIFISTI STRANIERI MANIFESTANO OGGI AL CHECK POINT DI AL-RAM

L'esercito israeliano ha completamente invaso Ramallah, compreso il quartier generale dell'Autorità Palestinese, con più di 150 carri armati ed altri mezzi militari. Il governo di Israele ha annunciato che intende occupare le aree della Cisgiordania che ad oggi sono sotto il controllo dell'Autorità
Palestinese, ripristinando così uno stato di completa occupazione militare, ed ha dichiarato guerra ai Palestinesi.
L'esercito israeliano ha occupato le abitazioni di Ramallah e sta procedendo ad una perquisizione casa per casa. In questo momento il problema principale per la popolazione è l'impossibilità di accedere ai servizi sanitari. Finora (7,30 del 29 marzo) sono stati uccisi 4 Palestinesi e abbiamo notizia di almeno 10 feriti - è probabile che siano di più - che sono senza cure
poiché i carri armati bloccano il passaggio delle ambulanze e del personale medico.
Alcuni pacifisti stranieri - Inglesi, Francesi, Svizzeri, Italiani e Americani - ora sono a Ramallah. Ieri le autorità israeliane hanno impedito ad altri trecento di entrare a Ramallah ed oggi questi tenteranno di nuovo di raggiungere la città da Gerusalemme. La stampa è invitata ad essere
presente alla manifestazione dei pacifisti stranieri che si terrà oggi, alle 8.30, al checkpoint di al-Ram.
La dichiarazione di guerra del governo israeliano nei confronti dei Palestinesi e la completa occupazione militare dei territori palestinesi non potrà che aggravare la crisi in atto, che ha le sue radici nella più lunga occupazione militare dell'era moderna. Chiediamo alla comunità
internazionale di intervenire con la massima urgenza per fermare le atrocità dell'esercito israeliano e per fare pressione sul governo israeliano affinché permetta di muoversi liberamente alle ambulanze e al personale medico.

Per ulteriori informazioni contattare il Palestine Monitor al numero
00972-52-396196.


Io sono un po' in pensiero per Goretta e per Elisa (dove sei?)
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CRISI UMANITARIA NEGLI OSPEDALI
APPELLO URGENTE :The Palestinian Society for the Protection of Human Rights & the Environment "LAW"
INTERVENGA SUBITO LA COMUNITA' INTERNAZIONALE

Uno dei principi basilari del diritto umanitario internazionale riguarda l'obbligo per gli Stati di assicurare l'accesso alle cure mediche per qualsiasi ferito, compresa la sua evacuazione se necessario, la protezione degli ospedali civili e del personale medico, il trasporto medico e garanzia dei rifornimenti sanitari.
E' per questo che il sistematico impedimento ai soccorsi medici, da parte delle forze di sicurezza israeliane sin dall'inizio dell'escalation, cominciato all'attacco al campo di rifugiati di Balata, il 28 febbraio, è in chiara violazione del diritto umanitario internazionale.
Un piu' recente esempio di violazione della neutralità dei soccorsi è la situazione a Ramallah dove l'accesso alle cure mediche viene ostacolato in diversi modi.
Dopo l'attacco al personale medico sulle ambulanze durante gli ultimi giorni, il PCRS ha deciso di coordinare ogni movimento con l'esercito israeliano; questo ha portato a ritardi che vanno dai 30 minuti alle 2 ore. In caso di feriti gravi, dove il tempo è un fattore assolutamente cruciale, i ritardi possono causare un aggravamento delle condizioni del paziente.·
Nonostante il preventivo coordinamento con le autorità israeliane, le ambulanze sono state ugualmente colpite. Per esempio, ieri alle 17,15, una jeep dell'ICRC di scorta a un'ambulanza della PRCS è stata colpita da tre proiettili
Da quel momento la PRCS ha sospeso tutti i movimenti fino a quando l'autorità israeliana non garantirà la sicurezza delle sue ambulanze. Ieri notte, la PRCS ha registrato 19 chiamate da Ramallah e Al Bireh, che non hanno ricevuto risposta.
A causa delle limitazioni di spostamento e degli attacchi al personale medico e alle ambulanze, feriti e morti non possono essere evacuati. Per esempio, ieri attorno alle 22, Shefa Ratha Tawil, 56 anni, un'abitante di Al Bireh la cui casa era stata circondata dai carri armati, ha avuto un attacco di cuore. I familiari hanno chiamato un'ambulanza, ma quando è arrivata sul posto le è stato vietato il passaggio. Attorno alle 24, la donna è morta.
Fino alle 12 di oggi non è stata permessa alcuna evacuazione dei corpi.
A causa della chiusura e del coprifuoco imposto a Ramallah, gli ospedali non possono ricevere rifornimento sanitari nè di cibo. Per esempio, l'amministrazione dell'ospedale di Ramallah ha detto che hanno urgente bisogno di ossigeno. Alle 15 di oggi LAW ha assicurato che all'UNRWA e alla OCRC sarà permesso di trasportare ossigeno, cibo e acqua per l'ospedale. Tuttavia, fonti dell'ospedale hanno detto alla LAW che la quantità di ossigeno autorizzato per il trasporto sarà consumato nel giro di sei ore. Ieri, quando uno degli autisti dell'ambulanza dell'ospedale, Hani Hamadi, ha tentato di portare rifornimenti sanitari e cibo all'ospedale, è stato costretto a tornare indietro dopo che la sua ambulanza è stata colpita.
Sono stati attaccati gli ospedali. Per esempio, il Ramallah Government Hospital ha subito la distruzione delle tubature dell'acqua. Di conseguenza, manca l'acqua da ieri Anche le linee telefoniche sono state interrotte.
Da oggi alle 11, l'esercito israeliano ha proibito l'evacuazione dei feriti al Ramallah Government Hospital, che è l'ospedale piu' grande e importante della città. Per questa ragione, alcuni pazienti sono stati trasportati all'Arab Medical Care Hospital, che si trova al centro della città ed è meno equipaggiato. Al momento in cui scriviamo(15,30), la LAW ha ricevuto notizie di 32 persone ferite a Ramallah solo nella giornata di oggi, 9 delle quali in condizioni gravi.
Poichè l'Arab Medical Care Hospital non ha sufficienti chirurgi e equipe medica, come gli anestesisti, l'equipe medica del Ramallah Government Hospital e dello Sheikh Zayed Hospital hanno tentato di fornire assistenza, ma l'esercito israeliano ha sbarrato loro la strada pribendo l'ingresso all'Arab Medical Care Hospital.
Di fronte alla crisi umanitaria negli ospedali , inclusi Ramallah e Al Bireh, la LAW sollecita con urgenza l'intervento della comunità internazionalen in particolare degli Stati Uniti e degli Stati membri dell'Unione Europea, perchè Israele dia garanzia di non ostacolare i soccorsi medici per tutti coloro che ne hanno bisogno e che gli attacchi agli ospedali, alle ambulanze e al personale medico cessino immediatamente.
Inoltre, la LAW sollecita la comunità internazionale ad aprire un'inchiesta e a procedere contro ogni azione di attacco alle ambulanze , alle equipe mediche e alle istituzioni che provochino la morte o il grave ferimento, per determinare se si tratti di atti deliberati. Ogni attacco deliberato costituisce una grave violazione della IV Convenzione di Ginevra ed è per questo un crimine di guerra.

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Associazione per la Pace
Gruppo Palestina
Via Salaria, 89 00198 Roma
Tel. +39 - 068841958
La pace non è solo l’assenza della guerra, è una virtù, uno stato della mente,
una disposizione alla benevolenza, confidenza, giustizia.
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Mea Shearim

La mia guida, se mi ricordo bene, ne parlava così: probably the most reluctant tourist attraction in the world, "forse la più riluttante attrazione turistica del mondo". Girava infatti voce che li accogliessero a pietrate, i turisti, a Mea Shearim. Io non ero sicuro di volerci dare un'occhiata. Eravamo stati tutto il giorno nel quartiere arabo della città vecchia, dove dopo una settimana ormai la gente ci conosceva e ci voleva bene. Non che smettessero di volerci rifilare kefie di cotone leggero stampate ad Honk Kong; la mattina una bimba di otto anni davanti alla Città di David aveva provato a sfilarmi il portafoglio; questo non significa che non ci volessero bene, ma la fame è brutta, la città sotto assedio da più di un anno, e noi gli unici turisti utili da mesi (e poi ovunque andavamo, in pullman, la gente sorrideva e ci salutava col segno della Vittoria). Non mi ero mai sentito così amato e non mi ero mai sentito così ricco, per cui, ovviamente, non mi ero mai sentito così in colpa: e tutto questo senza nemmeno dare un'occhiata alla faccia innocente del nemico, a Mea Shearim.

Alla fine ci siamo andati, dopo il tramonto, giusto per vedere. All'inizio non ci fidavamo nemmeno a chiedere la direzione: dopo un po' abbiamo sentito un bambino che diceva qualcosa, un balcone che sbatteva, e abbiamo pensato: "ci hanno avvistato"; dopo un altro po' abbiamo visto lo striscione sospeso sulla strada e abbiamo capito di essere lì.

Gli striscioni stanno forse dove una volta stavano le porte del quartiere: Mea Shearim penso significhi "cento porte". Una porta può essere aperta o chiusa, Mea Shearim potrebbe essere il nome di un quartiere ospitale. Invece è "la più riluttante attrazione turistica del mondo". Ora, è vero che in molti casi i turisti non sono che dei rompicoglioni che, oltre alla pretesa di vedere il mondo, hanno anche quella di trovarlo sempre comodo come lo vogliono loro. In fondo, sugli striscioni c'è soltanto scritto (in quello stile piuttosto brusco che mi sembra tipico degli israeliani, o è già un pregiudizio?) di non vestire in maniera indecorosa per la loro religione. Se avessimo letto la stessa scritta nel suq non avremmo trovato niente da ridire, perbacco, siamo in casa loro. Ma nel suq ormai ci sentivamo un po' a casa anche noi (e non era vero): qui invece ci sentivamo in pericolo, non fosse perché tutti vestivano in nero, tranne noi. E non era solo il problema. Le donne coi pantaloni, per esempio, avrebbero potuto giustificare una sassaiola? Lo striscione sembrava ammettere la possibilità, e io prestai la mia eterna giacca arancione alla signora che ci accompagnava, che tirò su il cappuccio e si mise a camminare come un rapper (certe signore non finiscono nelle Tute Bianche per niente).

Tra le persone in nero c'erano, forse, quelli che ci avevano accolto alla prima manifestazione con dei cartelli di questo tenore: "Palestinians in Jordan", "Stop fascist arab occupation of Israel", e gridandoci "You are terrorist". O forse no. L'impressione è che gli abitanti di Mea Shearim vivano nel loro mondo e si facciano i fatti loro. Mi piacerebbe sapere se è addirittura vero quello che ho sentito dire (se ne sentono tante), che in un Paese dove tutti, senza distinzione di sesso, sono chiamati al servizio militare (che comporta il quotidiano rischio della vita), loro ne siano esentati. Troppo puri per le armi.

Questo mi fa ricordare un'altra cosa: che anche se il loro eterno gingillarsi col grilletto del mitragliatore mi dava ai nervi, anche se ai posti di blocco ci hanno fatto dannare, anche se tirano giù le case dei palestinesi con le granate, io non sono mai riuscito a odiare i militari israeliani. Di solito sono ragazzini, sono nati nell'odio e nell'odio vivono e muoiono tutti i giorni, ma qualcuno gli ha mai chiesto cosa ne pensano di Sharon?
Ma con gli ortodossi è diverso.
Sin dall'aeroporto, ammettiamolo, detestavamo gli ortodossi. Saranno gli abiti? Ma gli abiti dei palestinesi, o di qualunque altro popolo, non ci danno la stessa sensazione. Il problema è che un ortodosso assomiglia terribilmente (anche nel modo di vestire) a un occidentale. E quello che noi perdoniamo a ogni popolo esotico, non lo tolleriamo in chi sotto sotto consideriamo uguale a noi. Anche quella sera giocavamo a "Vai avanti tu, che sembri ebreo", e ognuno aveva la sua idea sul perché lui non assomigliasse a un ebreo, mentre un altro sì. Come si fa a distinguere un ebreo? Semplice, e insieme difficile: l'ebreo è quello che ci somiglia.

Signora, le piace la foto del ragazzino palestinese che tira sassi contro un carro armato (a causa della foto magari il ragazzo è stato in galera due anni)? Sì? Lo vedrebbe suo figlio con lo stesso sasso in mano, a una manifestazione? Eh, ma che domande. No. Ecco, pensi a suo figlio vestito di nero con una bombetta e due buffi ricciolini, che mi tira un sasso perché passo in maniche corte e con la telecamera a tracolla. Non lo trova spaventoso? Questa è la sensazione che ti dà Mea Shearim.

Chi ha avuto la pazienza di leggere fin qua si sta chiedendo: insomma, ti dispiace o no di dieci nove morti (compresa una bambina) che non avevano fatto niente di male, uscivano dalla sinagoga? Sì, mi dispiace. Purtroppo il numero delle vittime di oggi è ancora maggiore, anche se sono tutti palestinesi (e quasi tutti civili, e 4 bambini). Forse fare il turista in guerra serve a questo: a dare un luogo, un nome, un ricordo, a quello che senti ogni giorno al telegiornale. Anche se ormai non alzo più il volume quando sento che parlano di Ramallah, Hebron, Gaza: ma le immagini le riconosco, quei paesaggi, quei volti li ho conosciuti, ora posso stare in pena per loro, anche se non capisco in che modo questo possa essere d'aiuto.

Mi dispiace per il popolo palestinese, che ormai ha scelto la strada del sacrificio, e non so quanto noi occidentali saremo in grado di dissuaderli (visto che le nostre grandi trovate occidentali, i caschi blu, gli interventi umanitari, questa volta non si possono usare).
Mi dispiace per il popolo israeliano, che in questa guerra non perde solo la vita, ma anche la propria Storia. Un popolo nato dai ghetti che lasciato libero si rinchiude, per sua spontanea volontà, in un ghetto al centro del mondo, che noi dovremmo difendere. Ma da chi? Io credo che Israele dovrebbe essere difeso da sé stesso. La pazzia in cui sta cadendo, noi occidentali la conosciamo bene, e proprio per questo non la dovremmo più tollerare, anzi, dovremmo lottare affinché non contagiasse di nuovo il mondo.

Una volta entrati a Mea Shearim, non riuscivamo più a uscirne. Un tassista a cui demmo il nome dell'hotel scosse la testa: lui nel nostro quartiere non ci andava, probabilmente non ci era mai stato in vita sua. Un altro che alla fine ci prese su era scuro di carnagione, e lungo tutto il tragitto ci chiedemmo (in dialetto) se fosse palestinese o israeliano. La targa, l'accento dell'inglese, la musica alla radio, nessun elemento sembrava sufficiente. Ma all'arrivo ci chiese i soldi e ci diede il resto contato, e tutti i dubbi si dissiparono: israeliano.
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